Tra le tante cose tirate fuori dall’armadio ed esibite sul tavolo in occasione della “Giornata della Memoria” celebrata ieri (commenti, rievocazioni, fotografie, film, programmi, talk show), spicca un documentario mandato in onda ieri sera da Rai Uno, dal titolo 50 italiani.

Naturalmente anche una buona parte di ciò che si è visto e letto era meritevole in sommo grado (e parte no, a causa dell’ovvietà, della retorica, della scontatezza), ma il lavoro della regista Flaminia Lubin ha offerto materia per riflessioni che toccano i misteri profondi dell’anima.

Fino a che punto può arrivare la libertà dell’uomo? La scelta tra una buona azione e una cattiva è veramente possibile? E lo è in qualunque condizione? Può un “cattivo” rischiare la vita per una buona impresa?

Il film, ricco di passaggi commoventi, narra episodi non inediti ma di scarsa notorietà al di fuori di una ristretta cerchia, relativi al periodo 1942-1943, quando in certe zone di occupazione italiana nei Balcani, in Grecia e nella Francia meridionale, decine di migliaia di ebrei furono salvati da alcuni esponenti militari e civili del regime fascista, in tutto una cinquantina.

E qui sta il punto: il tal colonnello e il tal console, la cui fedeltà a Roma e a Mussolini era indubitabile, riuscirono in un’opera che secondo gli standard dell’epoca e la nostra percezione del momento storico ha dell’assurdo, cioè non dovrebbe essere stata possibile. Gli ordini erano chiari e non discutibili: consegnare gli ebrei alle autorità tedesche e ai loro zelantissimi alleati locali (francesi, croati etc.).

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO
 

Cinquanta italiani non lo fecero. Mentendo, temporeggiando, nascondendo persone, inventando scuse, falsificando documenti (creando ad esempio la “cittadinanza italiana provvisoria”), autorizzando fughe, rendendosi irreperibili, disposti a subire vessazioni e insulti da parte degli ufficiali hitleriani, lasciandosi umiliare “in quanto italiani”.

Per molti mesi misero a rischio la loro stessa vita. Sappiamo bene infatti che nessuno poteva permettersi di disobbedire alla furia antiebraica del Reich (da leggere le sconvolgenti pagine de Le Benevole di Jonathan Littel sull’Olocausto in Ucraina e Bielorussia). 

 

Qualcuno però lo fece, qualcuno rifiutò di inscatolarsi negli ordini ricevuti e di “adattarsi” alla situazione storica (la quale oltretutto ne avrebbe attenuato le responsabilità). In altre parole, uomini che non vollero ritenersi un semplice prodotto delle circostanze. Forse erano stati cattivi fino al giorno prima, forse si resero comunque colpevoli di qualche azione ignobile.

Ma in quell’ora e davanti a quelle persone, decisero per il bene, trovarono l’energia e il coraggio di scegliere liberamente. Perché lo fecero? Quale molla misteriosa scosse il loro cuore, che magari impazziva di paura ma rimase ben saldo di fronte al male che li voleva complici? E noi oggi, come possiamo spiegarci che dei “fascisti” abbiano potuto compiere atti di eroismo? Accettiamo la possibilità che i nemici non siano sempre e solo cattivi? Che la libertà umana possa agire persino nella circostanza più dura e oscura?

Sono gli interrogativi, le tensioni che vibrano nelle pagine di Vassilij Grossman, di Solzenicyn e Shalamov, degli indagatori dell’Olocausto, a partire da Hannah Arendt. E che affiorano alla mente mentre scrutiamo il volto di coloro che vennero salvati a Salonicco o in Costa Azzurra, mentre ascoltiamo la loro voce, leggiamo i documenti d’epoca, ripercorriamo le biografie di questi altri Schindler e Perlasca: uomini non straordinari capaci di azioni straordinarie. Come ciò sia accaduto è appunto la domanda che non ci si può non fare, una volta arrivata sul teleschermo la parola “fine”.