Il Parlamento francese ha raccomandato il divieto del burqa nei servizi pubblici. E’ la soluzione giusta? Se proposto nel nostro paese soddisferebbe davvero la nostra volontà di sicurezza e quella dei musulmani di integrarsi da minoranza all’interno di un paese di diversa tradizione?
La complessità dell’argomento non ci permette di offrire risposte esaustive alle domande appena poste, ma la misura approvata in Francia tiene vivo un dibattito di vitale importanza anche per noi. Dobbiamo innanzitutto capire quale sia il metodo da privilegiare come strategia globale di integrazione nei confronti degli immigrati.
In questo senso ci sono profonde differenze tra noi, che come ha sottolineato il Presidente Formigoni “puntiamo di più sullo strumento del dialogo”, e la Francia, che con il suo approccio più laicista, tende a privilegiare l’omologazione con le idee e lo spirito della nazione.
Tenuto conto, comunque, che ai fini della sola identificazione, nel nostro paese già vigono leggi che proibiscono a chiunque di girare a volto coperto: che è cosa ben diversa dal voler violare la libertà religiosa, è certamente preferibile la via italiana, perché uno Stato che tende ad intervenire in ogni dettaglio della vita dei cittadini, imponendo loro convincimenti tramite delle norme, finisce per favorire l’isolamento e la rabbia delle minoranze.
Tra le tantissime voci che si sono alzate a commento dell’iniziativa di Sarkozy, quella del ministro degli esteri Frattini risulta essere la più equilibrata e condivisibile. Il ministro dice chiaramente che siamo di fronte all’“errore storico del metodo francese”, proibire e autorizzare per legge, l’ opposto del multiculturalismo olandese senza regole, altro modello sbagliato.
Serve una terza via, che non parta dall’ imposizione ma dal basso, dall’ integrazione sul territorio, dal dialogo interreligioso e interculturale. Se si vieta qualcosa per legge, ci sarà sempre qualcuno pronto a ribellarsi, e a ricadere nell’ illegalità”.
Il vero problema è il rifiuto del contatto con la comunità in cui vive da parte di chi si vela, di conseguenza non sarà alcuna legge a fargli cambiare idea. All’origine di tutto sta il fatto che dobbiamo comprendere le ragioni che stanno alla base di questo rifiuto, e per fare questo l’unica arma di cui disponiamo è quella del dialogo e della massima apertura. Un percorso lungo e accidentato, ma l’unico che può portare a risultati tangibili.
Dobbiamo essere contrari a chi utilizza il fenomeno migratorio soltanto per il proprio progetto politico, perché se quel progetto politico arriva addirittura a strumentalizzare le proprie tradizioni in rapporto a tutte le altre, il pericolo per la convivenza e per una vera integrazione è immensamente più grande.
Alla base ci sono appunto convivenza e integrazione, nel senso che il rapporto con le minoranze deve essere considerato un’opportunità per tutti. Il nostro modo di essere e le nostre tradizioni devono servire per alimentare questo rapporto, che va considerato come un arricchimento reciproco e quindi un arricchimento della nostra società. Questo non significa guardare in maniera positiva chi nasconde la propria identità coprendosi il viso in pubblico, ma al contrario significa considerare prioritario il fatto che l’immigrato si senta veramente “uno di noi”, un uomo con pari dignità che si senta parte integrante, attore e promotore dello sviluppo sociale e democratico.