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La fiducia assegnata con amplissimo margine da entrambi i rami del Parlamento al governo Berlusconi è un fatto, e come tale è molto più testardo delle teorie su di esso. La fiducia prima di essere interpretata va, per onestà, constatata. Gli atti delle Camere non sono sceneggiate. Invece quasi tutti spiegano al popolo: si è votata la fiducia, dunque si va a votare.

Non ne esistono le ragioni, né costituzionali né politiche. La rotta è determinata dalle scelte chiare, dalle decisioni concrete, non da presunti retropensieri. Del resto il presidente del Consiglio Berlusconi ha proposto a deputati e senatori, e attraverso di loro a tutto il Paese, una visione della politica e dei compiti del governo e del Parlamento sganciati da qualsiasi “rancore personale”, protesi al “bene comune che dà nobiltà alla politica”, sviluppati poi in un programma con capisaldi che certo non possono essere trascurati per curare le varie botteghe particolari.

Ha pronunciato insomma un discorso “alto”, attaccato cioè agli ideali, ma con conseguenze sul terreno delle cose e dunque con la chiara volontà di insistere nell’azione di governo, fino alla scadenza naturale della legislatura. Non ha – e non avrebbe avuto pochi argomenti… – messo in causa il ruolo del presidente della Camera, né versato una sola goccia di velenoso risentimento. È stato positivo, ha teso la mano dopo che sabato scorso Fini ha proposto di spegnere i fuochi di guerra.

Berlusconi ha dunque chiesto la fiducia sia su una concezione della politica che metta da parte qualsiasi forma di odio e di delegittimazione reciproca, sia su un programma preciso nei principi e negli scopi, ma aperto a contributi anche delle opposizioni, così che si concorra responsabilmente agli “interessi nazionali” e al benessere “dei nostri figli”. Non ha scritto dal nulla un programma nuovo, ma ha attualizzato quanto resta da realizzare di quel che gli italiani scegliendo il centrodestra hanno chiesto si facesse.

Era ed è una grande responsabilità quella che – e parliamo come deputati del Pdl  – ci è stata affidata. Non intendiamo in alcun modo derogare da essa, mettendoci a giocare alla politica per la politica.  Anzi, è un momento difficile dunque perfetto per le grandi sfide che riteniamo siano il punto centrale per un vero sviluppo sociale, economico e politico del nostro Paese.

 

1) Il Parlamento ha solennemente fatto sua – votando la fiducia – la “libertà di educazione”, come testata d’angolo della questione educativa nelle intenzioni del governo. Questa formula è stata usata con forza da Berlusconi: non è dunque sufficiente aumentare i finanziamenti dedicati alla parità scolastica (cosa che neanche osiamo pensare possa essere ostacolata), ma occorre lavorare per uno strutturale riconoscimento della presenza delle scuole "libere", come presenza in grado di introdurre davvero una concorrenza virtuosa e alla fine economicamente conveniente per il bilancio dello Stato.

 

2) La famiglia, elogiata esplicitamente da Berlusconi come realtà che ha consentito all’Italia di reggere meglio la crisi, è il termine primo della annunciata “riforma fiscale per la crescita”. In proposito, il premier ha fatto esplicito riferimento alla introduzione del "quoziente familiare", sul quale intendiamoconfrontarci con vigore.

 

3) L’impresa: il cammino di liberazione dell’impresa dai lacci e laccioli della burocrazia e il sostegno fiscale a queste realtà sono il modo strutturale per affrontare la questione del lavoro.In questi due anni di legislatura tanto è stato fatto, con la introduzione di ammortizzatori sociali adeguati, ma non è  abbastanza. È indispensabile una riflessione sulle politiche attive del lavoro, mossa da una “antropologia positiva”, per usare un termine lanciato dal Ministro Sacconi, nell’alveo della “big society” del premier britannico Cameron (che è il modo con cui ha ribattezzato la sussidiarietà reale).

 

4) Il federalismo fiscale va realizzato, costituendolo come strumento di responsabilizzazione effettiva della classe politica e come occasione per l’applicazione di un autentico principio di sussidiarietà. Ma ancor più semplicemente, nella scia di quel “più società meno stato” che già don Luigi Giussani ci parlava sin dal 1987.

 

C’è la fiducia, insomma si lavori. Non si dà pro-forma. È un atto reale. Ora dobbiamo meritarcela dagli italiani, perciò non abbiamo intenzione di fare agli altri e a noi stessi sconti sulla attuazione di questo programma, spingendo le iniziative parlamentari già in essere e presentandone nuove proposte. Noi abbiamo fiducia nella fiducia.