All’apertura del Sinodo sul Medio Oriente, Benedetto XVI parla senza leggere discorsi preparati.
Sarebbe facile esprimere le preoccupazioni “della Chiesa” come se la Chiesa fosse qualcosa di generico, una specie di organismo di vigilanza sulla spiritualità e (fino a qualche tempo fa) sulla buona morale del mondo. Mòniti contro la droga, contro le lotte fratricide, contro il terrorismo, contro la povertà e la fame, contro l’aborto sono cose che ci si aspettano dalla Chiesa, appartengono al suo ruolo.
Ma il Papa non ci vuole vendere questa immagine, nella quale in fondo (come in tutte le immagini, anche le peggiori) è facile accomodarsi, accettando una parte da recitare nel grande spettacolo del mondo – dove una parte per i preti ci sarà sempre. Il Papa ci parla dei mali che devastano il mondo e noi, con una smorfia interiore, ci rendiamo conto che sta parlando di cose concrete, difficilmente rubricabili sotto qualsiasi voce.
Ci parla dei “capitali anonimi”, di quelle oscure concentrazioni di capitali che si muovono quasi per forza propria, e generano schiavitù e violenza fino al massacro senza che nessuno si debba sentire responsabile in prima persona. I capitali anonimi sono quelli che mandano avanti la politica mondiale, che presiedono al mercato delle armi (ma non solo), e si muovono secondo una logica propria, leggi proprie di fronte alle quali la volontà di un uomo non appare solo impotente, ma anche insensata.
A questi mostri Benedetto XVI aggiunge, oltre alla droga e alle ideologie terroristiche “che dicono di agire a nome di Dio”, anche “il modo di vivere propagato dall’opinione pubblica” dove valori come la castità o il matrimonio non contano più.
Cosa accomuna tutti questi flagelli? La risposta è, secondo me, un altro flagello: l’assenza dell’uomo sul fronte delle azioni. Questi mali sembrano agire da soli, indifferenti al consenso o al dissenso delle persone. La loro azione rende più torpido il nostro cuore, allenta le nostre difese, ci fa vivere come dentro un sogno pieno di giochi a premi, concorsi canori, interviste televisive, mentre nemmeno ci accorgiamo che ci stanno calpestando il cuore e l’intelligenza.
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L’appello del Papa è un appello al cuore dell’uomo, che sempre si ridesta quando si trova di fronte non soltanto uno che parla del significato della vita, ma che lo rende presente portandolo, esattamente come ciascuno porta con sé le cose che ama veramente.
Nelle parole del Papa, infatti, non c’è solo un realistico allarme contro i poteri senza nome che insanguinano il mondo, ma la forza di una vittoria che in qualche modo è già presente. E il primo segno di questa vittoria sta nella sorpresa con cui lo ascoltiamo, nella capacità delle sue parole e della sua presenza umana di eludere le caselle nelle quali tutti (cristiani compresi) tenderebbero a rinchiudere le sue preoccupazioni.
Si capisce allora che il problema non è tanto quello di stracciarsi le vesti di fronte ai mali senza volto che affliggono l’uomo del nostro tempo, demoralizzandolo fino a ridurlo a uno stato di perenne torpore, ma di rispondere all’appello che il Papa ci fa. Si tratta di capire che la fede non è qualcosa che si aggiunge alla vita – un conforto, un sostegno psicologico o altro – ma una domanda radicale che chiede una decisione profonda: io, adesso, qui, voglio esistere o no?, voglio essere o no?, voglio finalmente capire chi sono io, o no?
A questo livello si pongono, davanti al complicatissimo rebus del Medio Oriente – metafora di tutti i problemi del mondo – le parole di Benedetto XVI.