Il nazionalismo serbo, visto in azione sugli spalti dello stadio di Genova martedì scorso, non è un fenomeno da sottovalutare

Dopo il pandemonio che ha portato alla sospensione di Italia-Serbia e la guerriglia consumatasi all’esterno dello stadio di Genova, anche l’osservatore più disattento non ha avuto alcun dubbio che si trattasse di un’azione premeditata volta a non far disputare la partita.



Tra le tante follie dell’indegno spettacolo di Marassi, quella che ci permette di tentare di dare una lettura più approfondita degli episodi di martedì sera è senz’altro l’immagine del famigerato Ivan (l’uomo incappucciato che è stato arrestato mercoledì mattina) intento a bruciare con un fumogeno la bandiera albanese, simbolo del popolo kosovaro.



Grazie a queste poche centinaia di ultranazionalisti serbi, torna alla ribalta una vicenda che rievoca un passato di sangue e di massacri. Un intreccio di lotte e vendette che ancor oggi non ha trovato una soluzione definitiva. Un paese, il Kosovo, che è oggi il paradigma della secolare instabilità dei balcani: nel 2008 si è dichiarato indipendente, ma un’indipendenza riconosciuta da soli 70 paesi membri delle Nazioni Unite, 22 dei quali fanno parte dell’Unione Europea (Italia compresa), insieme a Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone.

La Serbia, assieme a Russia, Cina e altri 5 paesi dell’Unione Europea, tra i quali Spagna e Grecia, si oppone a questa soluzione. Anche per questo rigurgiti di nazionalismo come quello di Genova, fortunatamente terminatosi senza conseguenze gravi, o come le aggressioni al gay-pride della scorsa settimana a Belgrado, non vanno affatto sottovalutati. È bene che la comunità internazionale torni a prestare un’attenzione particolare a queste vicende onde evitare conseguenze orribili. Sarebbe utile inoltre soffermarsi sui volti dei calciatori serbi a Genova, terrorizzati dai loro stessi connazionali.



Oggi, sei anni dopo il più grande allargamento della sua storia a cui è seguita nel 2007 l’adesione di Bulgaria e Romania, l’Ue deve mantenere fra le sue priorità il processo di stabilizzazione e di associazione con i Balcani. Anche perché quello serbo-kosovaro non è l’unico conto aperto. Se, ad esempio, i serbi di Bosnia dovessero perdere di vista la concreta possibilità di poter “stare da serbi” in Europa, non avrebbero certo remore a riprendere la strada della secessione, facendo piombare l’intero continente in una crisi ben più grave di quella odierna.

Dobbiamo identificare nella prospettiva europea la reale forza motrice del processo di transizione verso la democrazia e l’economia di mercato dei Paesi del sud ovest europeo. La questione dei Balcani occidentali è una sfida particolare per l’Unione europea. La regione raggruppa piccoli Paesi che si trovano a differenti livelli nel percorso per diventare membri dell’Ue.

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Di conseguenza, la politica di allargamento ha bisogno di avvicinarsi ai bisogni specifici di questi Stati deboli e di queste società divise. I capisaldi della strategia europea per integrare la popolazione dei Balcani in Europa risiedono nel commercio, nello sviluppo economico, nella mobilità dei giovani, nell’educazione e nella ricerca, nella cooperazione regionale e nel dialogo all’interno della società civile.

 

Solo tenendo aperta la porta ai Balcani l’Europa potrà mantenere fede al suo originario, vincente, programma politico: “Mai più la guerra”. E dare una speranza di pace al continente. Nonostante gli ostacoli che continuano a presentarsi lungo il percorso, l’obiettivo deve rimanere quello di una piena adesione di tutti questi paesi all’Unione europea. Fino a quando tutto ciò non si verificherà, l’unificazione europea non potrà mai dirsi completa.