Dopo l’estenuante altalena di questi giorni circa il se e il quando dell’approvazione alla Camera della riforma universitaria, e dopo i molti mesi trascorsi in attesa del nuovo, tutti presi in discussioni che ora sappiamo essere state pressoché inutili, è necessario archiviare il tutto fino alla prossima, non molto probabile né molto vicina, puntata.

Due sono i punti da cui si può ripartire, tralasciando per un momento il tema delle risorse, già ampiamente chiarito su questo giornale dal presidente della Conferenza dei Rettori, un affare che si giocherà sopra le nostre teste (anche se forse toccherà poi da molto vicino le nostre teste, quelle degli studenti e quelle dei docenti – i non docenti no, di quelli non parla nessuno).

Il primo: se una riforma globale non passa, occorreranno provvedimenti provvisori per far ripartire almeno qualcosa, ad esempio il reclutamento. Con grande parsimonia e per sostituire almeno una parte dei pensionamenti, occorrerà parlare di concorsi per cattedre e per ricercatori, da farsi, meglio se con nuove regole. Contro le sanatorie altri si sono pronunciati (e magistralmente Nicola Rossi in questo numero) e non è il caso di ribadire il loro più che ragionevole punto di vista: se vi sono situazioni da “sanare” sul piano dello stato giuridico, posto che i titolari delle stesse abbiano svolto una documentata attività di ricerca, è necessario mettere in atto procedure realmente competitive per i posti rimasti vacanti (e non solo per gli upgranding interni, anche se costano poco).

È anche chiaro che la preferenza debba essere data alle giovani generazioni, offrendo prospettive di crescita ad un capitale umano che, se sperperato, non ha possibilità di rigenerarsi.

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Sempre in assenza di una riforma globale, sul piano dei finanziamenti, si potrebbero almeno rivedere i criteri di attribuzione delle borse di studio, abrogando la legislazione vigente per lasciare libere università e regioni di introdurre criteri di merito per accedere ai benefici di legge. Si potrebbe da subito lavorare sodo per costruire un sistema di valutazione delle performances degli atenei adeguato ai moderni standards europei, in base al quale ripartire le ormai scarse risorse. Si potrebbe infine provare a far entrare in università fondi di altra provenienza (dei privati, degli enti locali etc…) alleggerendo le procedure interne che sembrano far di tutto per scoraggiare i pochi che cercano di andare in questa direzione. C’è sicuramente molto altro da fare; gli esempi fatti servano unicamente a indicare un metodo, forse più efficace della palingenesi promessa.

 

Il secondo punto riguarda una questione più delicata, una questione di fatto (e non giuridica): la questione è delicata perché, da un lato, è innegabile che il sistema necessiti di una riforma ma, dall’altro, l’università non è solo il disastro dipinto dai mass media.

Stacco tra Paese/ università legale e Paese/ università reale? In un certo senso sì, ma non per questo il reale è meno reale. Se ci si toglie gli occhiali delle ideologie partigiane ed interessate si può vedere qualcosa che non compare sui giornali: studenti e docenti impegnati in iniziative culturali, docenti che insegnano e ricercano per davvero, anche a livello internazionale, autorità accademiche che governano bene, ricercatori al lavoro etc…

Mettendo  tutto in fila potremmo trovare molte cose sorprendenti, da valorizzare, segno di una vita che pulsa dentro una istituzione che molti danno per morta. Questa è una sfida che la realtà lancia alla politica. Potrebbe essere interessante raccoglierla.