Il senso della malinconia

Uva e olive, frutti di questa stagione, vengono tramutati in vino e olio, da gustare per tutti i mesi infecondi che verranno, fino alla prossima fioritura

Giusto un anno fa scrivevo un editoriale su ciò che più mi impressiona dell’autunno: la caduta delle foglie, emblema della caducità delle cose. Oggi, guardando i rami degli alberi che si spogliano o i bassi cespugli del piccolo giardino di casa che ingialliscono, non posso che aver di nuovo gli stessi pensieri; repetita juvant. Eppure questo autunno porta anche qualche nuova considerazione.

 

Oggi possiamo mangiare mandarini a ferragosto e fragole a Natale, ma non c’è dubbio che i “frutti di stagione” sono più saporiti. E i frutti di questa stagione sono una festa. Ci sono le pere dal colore di ruggine e i melograni che sembrano uno scrigno di perle rosse. Ci sono anche le castagne, ben disposte a due a due nei loro ricci protettivi. Ma, soprattutto, questa è la stagione in cui maturano due dei prodotti più straordinari del suolo terrestre. Prodotti che hanno fatto cantare per millenni i poeti e riempito di stupore poveri e ricchi. Sto parlando dell’uva e dell’oliva. Cioè del vino e dell’olio.

Sì, perché il frutto autunnale ha una caratteristica tutta sua. Quello primaverile ha la freschezza fragrante di una sorpresa e lo si consuma subito perché tanto ci attende la calda e ricca estate. Quello autunnale, invece, l’estate ce l’ha alle spalle e davanti ha l’arido inverno. Perciò, dopo aver trascorso i mesi della calura ad accumulare e tesaurizzare il sole, la vite e l’ulivo rendono il loro paziente lavoro sotto forma di frutti da spremere. E, tramutati in vino e olio, da gustare per tutti i mesi infecondi che verranno, fino alla prossima fioritura.

Quello autunnale è un frutto di lunga gittata, un frutto previdente, che si preoccupa del futuro. Saggio. Forse per questo, almeno dalle mie parti, tutte le feste paesane si svolgono all’inizio d’autunno. E spesso sono dedicate proprio all’uva; visto che l’ulivo qui non cresce. Il raccolto d’inizio estate, quello del grano per fare il pane, è indispensabile per vivere; questo d’autunno ha una eccedenza gratuita che invita alla festa.

Continua

Lo dice il salmista, quando ringrazia il Padre Eterno perché dona all’umanità «il vino che allieta il cuore dell’uomo e l’olio che fa brillare il suo volto». Lo dice il lirico greco Anacreonte: «Avanti, riprendiamo / a bere ma non più trincando / con strepito e schiamazzi: / sorseggiamo in mezzo ai bei canti». Baudelaire fa dire al vino stesso: «Io so quanta fatica e dolore ci vuole / per mettermi alla luce e darmi anima e fiato, / sulla collina in fiamme, sotto il cocente sole; / ma non sarò con te né maligno né ingrato, / perché mi sento invadere da un’immensa letizia, / quando d’un uomo esausto l’arida gola inondo».

 

Frutti festosi, dunque. Ed è una festa vera, autentica. Cioè che porta con sé una acuta e dolce malinconia. Ogni festa che l’uomo fa nel tempo, infatti, non può che essere un anticipo, precario e passeggero eppure vero, della desiderata festa senza fine. Non è, questa malinconia, una tristezza cattiva, come un’ultima rivincita del niente. È saggezza dell’uomo che sa gustare ogni frutto della terra, sapendo che esso lo rimanda a una terra “nuova”, dove non c’è più la caducità delle foglie.

Ti potrebbe interessare anche

Ultime notizie

Ben Tornato!

Accedi al tuo account

Create New Account!

Fill the forms bellow to register

Recupera la tua password

Inserisci il tuo nome utente o indirizzo email per reimpostare la password.