Mentre riflettevo sulle questioni fondamentali alla base dei temi che verranno discussi nelle prossime elezioni di mezza legislatura, ho riletto un articolo apparso su Harper’s Magazine nel dicembre 2007 e che raccomando alla lettura di chi è interessato al rapporto tra la politica e la spiritualità americane. L’autore dell’articolo, intitolato “Hot Air Gods.” (dei senza valore), è l’opinionista e critico Curtis White.

White scrive che quando un americano dice “credo” implica tre cose importanti: che è un diritto avere un proprio credo; che gli altri devono rispettare questo mio diritto a un mio credo, anche se per loro non avesse alcun senso; che ciò in cui credo non deve avere un senso perché sia riconosciuto come diritto, cosicché io sia legittimato a ordinare la mia vita secondo questo credo e a rafforzarlo attraverso l’elezione di politici e l’appoggio a leggi.

White fa un’osservazione cruciale: “Ciò che è richiesto a una convinzione non è che abbia senso, ma che sia sincera. Questo è vero anche per le nostre convinzioni più laiche… Questa sincerità è senza dubbio in parte fervore, ma è anche un avvertimento, perché dice ‘ho investito molta energia emotiva in questo credo e, in un certo senso, vi ho posto la credibilità stessa della mia vita. Perciò, se viene ridicolizzato, aspettatevi battaglia’”.

Acutamente, White osserva che vi è “qualcosa di sbagliato” in questa spiritualità, e cioè che “avviene nell’isolamento. È come se ciascuno di noi fosse una terra straniera e volessimo sapere in che cosa credono gli abitanti degli altri Paesi (individuali)”. E conclude: “Il nostro credo più chiaro è credere nell’eresia stessa, è un’eresia senza ortodossia”, l’affermazione del diritto di ciascuno alla propria eresia.

Come si collega questo atteggiamento alla concezione americana della libertà religiosa? Secondo White in questo modo: “La libertà di religione è giunta a questo punto: dove ciascuno è libero di credere in quello che gli pare non esiste nessuna convinzione condivisa, quindi nessuna Chiesa e nessuna comunità. Paradossalmente, la nostra libertà di credere è arrivata a ciò che Nietzsche chiamava nichilismo, ma per una strada che lui mai avrebbe immaginato. Per Nietzsche il nichilismo europeo rappresentava il fallimento di ogni forma di credo… ma il nichilismo americano è qualcosa di differente. Il nostro nichilismo è la nostra capacità di credere in qualsiasi e in nessuna cosa allo stesso tempo. Va bene tutto!”

Per White questa spiritualità è in realtà una difesa contro una latente disperazione, direi, una disperazione per il fatto che la realtà è meno di quanto noi vorremmo, che ciò di cui il nostro cuore ha bisogno e desidera non è reale. Vale a dire un’indicazione di ciò che monsignor Giussani definisce la “riduzione del desiderio” che caratterizza la vita moderna.

 

“Tutto questo, però, non è stranamente familiare?” chiede White, che vede nella nostra attuale situazione ciò che i profeti Isaia e Geremia denunciavano come il culto degli “dei senza valore”. Cosa si può fare, se qualcosa si può fare, per salvare le notevoli conquiste del pluralismo e della diversità americane da questa cultura caratterizzata da una disperazione repressa?

 

La cultura politica americana, scrive White, è riuscita in effetti a mediare tra le contrastanti pretese della religione vera e dell’idolatria. Se non ha cancellato del tutto l’odio che scaturisce da questa distinzione, ha quanto meno impedito in gran parte la violenza. Come gli imperi romano e persiano, il nostro sostiene la libertà religiosa fino a che questa non interferisce con l’amministrazione dell’impero che porta ricchezza alle élite al potere. Nel nostro caso, afferma White, alle convinzioni religiose non è consentito minacciare le esigenze poste dalla privatizzazione della ricchezza.

 

Si può o meno condividere la concezione di White sul capitalismo americano, così come il suo giudizio sugli effetti negativi che ha su un’autentica spiritualità, ma la riforma proposta da White non riesce, secondo me, a superare i desideri del cuore che definiscono ciò che significa essere umani.

 

Ciò che serve oggi, scrive, è un “immane progetto di traduzione”. Se interpreto correttamente, questo comporta dialogo, riflessione su se stessi e capacità critica che portino alla luce i valori realmente umani che sottostanno alle diverse convinzioni religiose, consentendo a ognuno di riconoscere negli altri la comune umanità.

 

In nessun punto del progetto, tuttavia, i partecipanti al dialogo si mettono a confronto con la questione della verità. In consonanza con il pensiero di Jan Assman, White apprezza il fatto che questo progetto di traduzione porti all’abolizione della “distinzione mosaica” e dell’opposizione tra idolatria e verità. Qui sta il problema, che non è di “sincerità” e neanche di “traduzione”. Il problema è nelle pretese di verità. La domanda è: come possiamo capire e sperimentare la Verità non come elemento di divisione che conduce all’intolleranza e alla violenza?

 

Solamente se la creazione della realtà è un dono d’amore. Solo se Deus Caritas Est. È questa convinzione, che viene dall’incontro con Cristo, che possiamo e dobbiamo offrire alla nostra società come nostro contributo alla liberazione dalla disumanità del nichilismo.