Lo so molto bene che non è giornalisticamente corretto mettersi a commentare una notizia che è vecchia già di due settimane. Ma lo faccio lo stesso, perché mi sembra proprio il caso di non cedere alla consumazione da fast food delle notizie.
Per quale ragione una cosa capitata due settimane fa deve per forza finire nella pattumiera, insieme alle bucce dei frutti mangiati, o nel cestino dei fogli scarabocchiati? Sarà pure possibile che ci siano fatti sui quali uno ritorna con la memoria, perché hanno ancora una grande ricchezza d’insegnamento.
Anzi, nel turbine degli accadimenti, le cose più care sono proprio quelle su cui ci si può continuamente attardare, che si possono continuamente guardare, senza neanche troppo la preoccupazione di “commentarle”. Così è dell’avventura dei trentatre minatori cileni estratti dalle viscere della terra dopo che li si era creduti morti e dopo che per settanta giorni si è cercato, alla fine con successo, di estrarli incolumi, superando uno strato di terra e roccia di oltre seicento metri.
I commenti ci sono stati, abbondanti, spesso profondi e azzeccati. Si è parlato di vittoria della speranza e della combattiva tenacia che si oppone alla crudeltà della natura, e all’incuria degli uomini. Si è parlato della fede che ha sorretto i minatori e che la preghiera di migliaia di persone ha quotidianamente alimentato.
Si è acutamente proposta le metafora della ri-nascita, del nuovo venire alla luce di questi uomini che sembravano imprigionati nel ventre oscuro della terra. O quella della guarigione, che altro non è che il divincolarsi da una materia ostile e soffocante per tornare a respirare a pieni polmoni l’aria della salubrità. E poi l’accento sull’attesa dei parenti: il volto del bambino che, col suo caschetto bianco, aspetta il papà, quelli della moglie agitata o dei genitori sfiniti.
Non voglio aggiungere altre immagini. Mi chiedo soltanto come mai questa notizia sia stata per me – e penso per molti – così coinvolgente da arrivare alla commozione. Credo che sia perché abbiamo visto che non c’è abisso buio e soffocante dal quale non si possa risalire. Sappiamo bene che l’abisso esiste.
Lo sappiamo negli strani momenti in cui dentro, in fondo, qualcosa improvvisamente cede, come la falda di una miniera, e la luce che sembrava inestinguibile di colpo o lentamente s’affievolisce, soffoca per mancanza d’aria. Lo sappiamo quando buttiamo lo sguardo su certi dolori del presente o del passato, o quando lo stesso giornale che ci dà la notizia dei minatori ci sbatte in faccia il delitto assurdo per una coda alla biglietteria del metro o per un cane sfuggito dal guinzaglio e investito da un taxista. In questi momenti verrebbe da dire che il profondo dell’uomo è una miniera buia da cui è impossibile risalire.
Ma loro – lo abbiamo visto – sono risaliti. Il profondo non è un abisso di oscurità, ma il luogo dove abita, comunque, un’umanità che vuole accanitamente vivere, tornare a galla, respirare. L’umanità di noi, minatori della vita, che dopo tutti gli attraversamenti pericolosi e difficili, dopo il buio più infernale, vogliamo uscire «a riveder le stelle».