Il limite della lunga transizione italiana è l´approccio ideologico di chi immagina la politica non come un mettersi al servizio della creatività sociale, bensì pretende di produrre una nuova realtà i cui confini sono determinati da quello che si è capaci di fare. Non più quindi la persona al centro di un´azione politica, ma la politica come personalismo.

Sedici anni fa Silvio Berlusconi ha regalato alla politica italiana alcune innovazioni che hanno prodotto per molti versi una “storia nuova”: in primo luogo ha reso possibile il mettersi insieme di chi sembrava non potesse stare insieme, penso ad Umberto Bossi e Gianfranco Fini, ponendo fine al perverso gioco d potere del cosiddetto “arco costituzionale”. Non solo: con Forza Italia è riuscito a costruire una piattaforma in cui si è potuta verificare la compresenza delle anime più diverse che fino al ‘94 hanno cavalcato lo scenario politico italiano. Ex democristiani, socialisti, liberali e repubblicani, ed anche un filone di persone che fino a quel momento erano avevano vissuto al di fuori della partecipazione della cosa pubblica.

Purtroppo questa “storia nuova” ha avuto come effetto collaterale di produrre anche una vera e propria “corte”. Nessuna delle componenti che ho prima citato è esclusa da questa corte, tutti ne hanno fatto parte a vario titolo: anche Fini e Casini. Quando il cammino è stato percorso orientandosi ad un approccio non ideologico c´e´ stata “storia nuova”: dal 5 per 1000 alla riforme nel settore del welfare, al tentativo di arginare il peso della criminalità in alcune aree del paese. Servire un bisogno che c´è, appunto.

Quando, purtroppo, la logica che si è affermata è stata viziata da un malinteso senso di una politica del “fare” disancorata da contenuti e visioni ideali condivise con pezzi ed esperienze della società reale, ci si è ripiegati su se stessi determinando improvvide divisioni.

In questo senso il grande rischio a cui tutto il centrodestra espone il paese è che presentandosi diviso ad un´eventuale tornata elettorale, finirà col favorire il teorema vendoliano, vale a dire l’ipotesi di una sinistra modello “fronte popolare” che, semplicemente ricompattandosi, o meglio, motivando il proprio elettorato più radicale, e tenendo in scacco un Partito Democratico oramai incapace di generare proposte di natura riformista, potrà assicurarsi, con la legge elettorale vigente, il governo del paese.

Se si dovesse fare largo questo scenario, a maggior ragione dovremmo tornare a interrogarci su cosa voglia dire fare politica a partire dalla propria fede, considerando che questa capacità di giudizio era originata, in uomini come Sturzo, dal desiderio di ribadire ribadire il primato della persona di fronte ad istituzioni che si sentivano più padrone che garanti della vita dei cittadini.

 

In assenza di Berlusconi noi avremmo quindi un’offerta politica oscillante tra il fronte popolare e la caricatura finiana dello stato liberale post unitario, quello che invece che servire la società la ingabbiava con leggi antisussidiarie.

 

In entrambe queste prospettive non ci sarebbe spazio per un contributo originale e decisivo dei cattolici alla vita del paese, né si può pensare che un eventuale perdurare dell’esperienza di Berlusconi sia in assoluto garanzia di quell’esperienza.

 

Torno a dirlo quindi: affrontare il tema dell’unità dei cattolici in politica e soprattutto della possibilità di fare politica a partire dall´essere cristiani, non serve a rifare una delle tante DC in miniatura di questi ultimi anni, ma può servire per tornare a radicare nel paese una visione più corrispondente ai nostri ideali dando spazio non all’Italia della rabbia e dei conflitti, ma a quella delle mille voci di una società plurale e propositiva.

 

Una politica basata sulla verità e sulla centralità della persona insomma, non si concepisce demiurgica, ma si piega alla grandezza ed al valore che nella società reale hanno e le esperienze per cui vale la pena costruire.