Una sera, in una discussione con un direttore di giornale, vero maitre a penser di un’affascinante e seguitissima ideologia minoritaria, toccai un tasto che improvvisamente lo fece andare in bestia. I toni si fecero accesi, al limite dell’insulto e mi fermai prima che la polemica, già trascesa, diventasse irreparabile.



La cornice del battibecco era la guerra di Bush in Iraq. Lui ne era e ne è un accesissimo sostenitore, e più cercavo, insieme a un amico, di mettere sul tavolo i problemi irrisolti e le ragioni insufficienti di quella scelta davvero storica (forse nessun atto come quello sta segnando l’intera nostra epoca), più spingevo per rendere un po’ meno granitiche le certezze senza possibile replica dell’interlocutore, più le strade della discussione si chiudevano.



Ma fino a quel momento si poteva ancora ragionare, in fondo ci trovavamo in un dopocena semifamiliare, e c’era grande affettuosa stima reciproca. Lo scoppio fu alla pronuncia della parola “cristiani”. La guerra aveva imposto loro una sorte amarissima. Gli americani non se ne erano minimamente interessati, né erano corsi ai ripari quando i cristiani erano diventati bersaglio facile degli islamisti.

Dicevo che questa era una delle conseguenze più atroci di quella che appariva come un’incredibile, terrificante mancanza di strategia e di previsione. La morte e la fuga di un intero popolo, come si può trascurare questo aspetto quando si parla della guerra? Con le sue ultime forze il povero Giovanni Paolo II aveva energicamente, disperatamente, cercato di fermare la macchina dell’invasione che sapeva avrebbe travolto i cristiani e con loro il lumicino della libertà religiosa e della libertà di coscienza. Ma tutto questo per il nostro interlocutore non contava. Anzi, suonava come una odiosa, machiavellica giustificazione dell’inazione cattolica di fronte all’infame regime di Saddam, che aveva sterminato i curdi, che minacciava Israele, ecc.



L’abbattimento del dittatore e l’instaurazione di una democrazia, certamente incompiuta, era il risultato storico di cui Bush doveva essere orgoglioso e noi con lui. La “questione” dei cristiani (e citava qui la loro “vergognosa vicinanza” al dittatore) si sarebbe risolta con il tempo e con la storia; e proprio a fronte dei grandi rivolgimenti storici, quelli che restano nei libri, non poteva essere sovraccaricata, né nei numeri (quale certezza c’era circa i cinque-seicentomila profughi in Libano, Siria e Giordania?), né nel significato.

 

Non poteva gettare alcuna ombra sulla guerra e anzi – a questo punto l’assalto dialettico si era trasformato in un bombardamento al napalm – era intollerabile che noi mettessimo in dubbio la necessità della guerra, solo argine all’espansione islamista: ma era ovvio, che ci si può aspettare dai soliti cattolici senza coraggio, irenisti, afflitti dal complesso di colpa occidentale? Ancora non eravamo disposti ad accettare che per cambiare il mondo occorre pagare un prezzo?

 

Decisi per parte mia che non avrei fatto a gara a chi tuonava di più, a quel punto non c’erano più ragioni e parole a contrapporsi ma solo rumori. Un saluto frettoloso mise fine alla serata. Ci penso sempre quando dall’Iraq arrivano le notizie, ormai sempre più frequenti, della tremenda “pulizia religiosa” operata dalle milizie musulmane contro i cristiani (e ritengo che ciò accada proprio per ragioni confessionali e non perché i cristiani siano ritenuti “alleati dell’Occidente”). E penso alla loro solitudine.