La battaglia politica conseguente alle elezioni di metà legislatura è iniziata. Un giudice federale ha dichiarato incostituzionale una parte cruciale della legge di Obama sulla riforma sanitaria; importanti esponenti militari si sono pubblicamente opposti al piano del presidente di revocare la politica del Pentagono nei confronti di gay e lesbiche nell’attuale tempo di guerra; il presidente ha accettato alcune delle richieste chiave dei Repubblicani per poter far passare la legge fiscale, facendo arrabbiare la sua base politica democratica… e così via, con qualcosa in più in arrivo.
L’aspetto più interessante del conflitto è ciò che sta rivelando sul carattere (umiltà, voglia di cambiamento, capacità di capire cosa è un compromesso accettabile, ecc.) del presidente Obama. Stranamente, per molti Obama rimane un enigma perfino dopo la sua lunga campagna per la presidenza e due anni di governo.
La sua foto mentre, venerdì scorso, cedeva il podio all’ex presidente Bill Clinton nella stanza delle conferenze stampa alla Casa Bianca, ha dato il via a un’accesa discussione sulla possibilità di paragonare Obama a Clinton, che subì una sconfitta simile nelle elezioni a metà del suo primo mandato, nel 1994, riuscendo tuttavia a sopravvivere e a prosperare politicamente.
Anche il presidente Reagan dovette affrontare una situazione simile, ma lui non è più qui per consigliare Obama su come giocare le sue carte politiche. Clinton, invece, è decisamente qui ed è sembrato trovarsi molto bene sul podio, sollevando la domanda: “Cosa sarebbe successo se Clinton fosse oggi il presidente?” (vedi il dibattito su The New York Times del 12 dicembre). Ovviamente, il 2010 non è il 1994 e, comunque, il punto è su cosa e perché Obama è disposto ad accettare di quanto suggerito da Clinton.
Poi vi sono le reazioni alle continue rivelazioni di Wikileaks, che alimentano le discussioni su una politica di sicurezza nazionale che tenga conto delle attuali minacce globali e sia capace di rispondere ai nuovi sviluppi tecnologici, rispettando al contempo i requisiti imposti dalla Costituzione. Così, le discussioni vanno avanti, ma la massa dei cittadini sembra concentrarsi sul prossimo periodo di vacanza.
Quanto a me, devo confessare che la discussione che mi ha maggiormente interessato sembra non aver nulla a che fare con la politica, ma invece ne avrà, ne avrà… Il dibattito che alla fine potrebbe rivestire la maggiore importanza per il futuro riguarda la natura delle conclusioni scientifiche. Un buon riassunto del problema è apparso su The New Yorker del 13 dicembre, in un bell’articolo di Jonah Lehrer dal titolo: “La verità svanisce; c’è qualcosa di sbagliato nel metodo scientifico?”.
Non c’è qui lo spazio per descrivere adeguatamente i fatti che hanno portato scienziati a sollevare la questione di cosa sia vero da un punto di vista scientifico. Può bastare ricordare che ha a che fare con la “ripetibilità”, vale a dire, il requisito di ottenere gli stessi risultati da esperimenti identici effettuati da scienziati diversi, in momenti e luoghi diversi. L’articolo di Lehrer descrive molti casi in cui questo non è avvenuto e la conclusione dell’articolo sottolinea le domande sul metodo scientifico sorte da questi esperimenti.
“Simili anomalie dimostrano la precarietà dell’empirismo”. Non perché dimostrano la capacità di errore degli scienziati, né perché rivelano che molte delle nostre entusiasmanti teorie sono mode passeggere che verranno presto rigettate. Piuttosto, il problema è che “ci ricordano quanto sia difficile provare qualcosa. Ci piace far finta che i nostri esperimenti definiscano per noi la verità, ma spesso non è così. Perché il fatto che un’idea sia vera non significa che possa essere provata. E che un’idea possa essere provata, non significa che essa sia vera. Una volta fatti gli esperimenti, noi dobbiamo ancora scegliere a cosa credere”.
Scegliere in base a cosa? Probabilmente alle ideologie politiche e al potere economico. E così siamo ritornati a Obama, Clinton, Democratici, Repubblicani, a ai loro dibattiti.