È proprio vero che si impara molto di più guardandosi intorno con attenzione che stando lì a rimuginare i propri pensieri. Ambulatorio di un grande ospedale di Milano; incessante via vai di persone coi loro documenti in mano. In attesa del mio turno, esco, mi accendo una sigaretta e mi guardo un po’ in giro.
La zona è vietata alle macchine. A un certo punto, però, ne arriva una. Capisco che ha il permesso di entrare nell’area pedonale, perché sul lato del passeggero siede un’anziana signora in vestaglia; evidentemente si tratta di una paziente dell’ospedale che non poteva fare a piedi il tragitto dal reparto agli ambulatori e si è fatta accompagnare. L’auto accosta e ne scende il guidatore, un signore anche lui molto anziano, dal fisico robusto, ma molto curvo per l’età; il marito della signora. Fa il giro della macchina, apre la portiera e aiuta la moglie nella faticosa operazione di uscire dal veicolo.
Lei si avvia agli ambulatori, mentre lui deve portar l’auto fuori dalla zona pedonale. Mentre lui sta risalendo in macchina, la moglie si volta e, con voce tremante, lo implora: «Fa’ in fretta!». Una domanda autentica, carica di bisogno e di trepidante attesa. Con un’importante connotazione: che suo marito facesse «in fretta». È la stessa domanda con cui tradizionalmente iniziano le orazioni cristiane: «Signore, vieni presto in mio aiuto». Più eloquente è la versione latina: «Domine, ad ajuvandum me festina». Festina: fa’ in fretta.
La fretta, l’andare di corsa, il non aver mai abbastanza tempo sono una caratteristica del nostro modo di vivere. Ed essendo sempre di fretta noi, chiediamo che anche gli altri siano estremamente solleciti nei nostri confronti. Ma è una fretta che è agitazione, che insiste per una risposta che deve arrivare il prima possibile; per poi essere sostituita da altra domanda a sua volta portatrice di ansiosa aspettativa.
Forse più che fretta potremmo chiamarla frenesia. Quella che ci prende quando il computer ci dà troppo lentamente la videata che gli chiediamo, quando un collega tarda a risponderci o un semaforo a diventar verde. È una frenesia dominata dalla pretesa.
Quella vecchia signora no, non aveva nessuna pretesa. Aveva solo uno sconfinato bisogno: non poteva affrontare ciò che doveva fare da sola, senza il marito. E aveva un’altrettanta sconfinata certezza: quell’uomo, con cui ha convissuto per anni, sarebbe tornato e l’avrebbe amorevolmente assistita.
Ricordate il film Il grande silenzio? Per tre lunghe ore vediamo – senza una parola, senza una musica – la vita dei certosini dell’alta Savoia. Vita scandita dalle preghiere, che iniziano proprio con «Domine, ad ajuvandum me festina». Anche in loro non c’è nessuna fretta pretenziosa; hanno davanti lunghe ore di silenzio, di lavoro, di lettura. Hanno tutto il tempo che vogliono.
La loro non è una domanda che faccia indebita pressione sull’interlocutore. Sanno che per colui a cui domandano «Mille anni sono come un giorno solo». Eppure gli chiedono di affrettarsi. Perché senza di lui non possono vivere. E nell’attesa calma si placa ogni ansiosa pretesa.