Inondati dai dispacci di Wikileaks (troppa informazione uguale nessuna informazione), abbiamo prestato poca attenzione a quel che accadrà domani a Oslo dove verrà consegnato il premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo.

Lui non ci sarà, prigioniero dello spaventoso sistema carcerario capital-comunista per una condanna a 11 anni ricevuta nel dicembre 2009. Aveva commentato con queste parole: «Da molto tempo sono consapevole del fatto che quando un intellettuale indipendente si alza in piedi in uno Stato autocratico fa un passo verso la libertà e uno verso la prigione. Ora sto facendo questo passo; e la vera libertà è molto più vicina».

Né ci sarà la moglie, fatta “sparire” il giorno stesso della notizia del premio. Di cinesi solo gli amici di Liu, esuli qua e là per il mondo, saranno nella capitale norvegese, uno di loro ritirerà il premio in sua vece. Il regime di Pechino è furioso e in queste settimane ha fatto di tutto per screditare premio, cerimonia e Norvegia, colpita da sanzioni economiche.

Un nervosismo che si è manifestato anche nei confronti dei cattolici nonostante tutti i gesti di buona volontà e di apertura da parte della Santa Sede di questi ultimi anni. Le pressioni cinesi, ma in diversi casi non c’è stato bisogno di “premere”, hanno portato una ventina di Paesi a disertare  l’evento di domani. Tra questi Pakistan e Arabia Saudita, Kazakhstan e Tunisia, Irak (bella democrazia abbiamo messo in piedi noi occidentali) e Iran, Venezuela e Sudan, ovviamente Cuba e Vietnam.

Due assenze sono particolarmente pesanti e anche dolorose, ammettiamolo: Filippine, Paese a stragrande maggioranza cattolica, e Russia (seguita dai satelliti Serbia e Ucraina). Nel primo caso, la ragione sarebbe negli accordi economico-militari in corso di conclusione con la Cina; del secondo possiamo solo registrare costernazione e delusione, poiché nessuna ragione potrebbe essere accettata.

Un Paese che dovrebbe avere imparato sulla propria pelle il valore della dissidenza, del coraggio di sfidare il potere, della libertà di coscienza, come può non vedere nel presente della Cina il proprio passato? Non ce lo si aspettava, da una terra che ha generato padre Men e Bukhovski, Siniavskij e Daniel, Sacharov e Solzenicyn.

Per decenni  nell’Europa occidentale si è guardato con ammirazione alle schiere di uomini e donne che andavano a riempire le celle del Gulag, che accettavano di finire dentro a processi farsa, che non si facevano piegare dal potere inumano del partito; abbiamo amato la Charta 77 di Havel e la Solidarnosc di Walesa: oggi non possiamo non indignarci per l’assenza voluta dai leader della Russia, come ha giustamente messo in luce Pierluigi Battista sul Corriere.

Il nostro amico Putin ha preferito Pechino a Oslo e a tutto ciò che Oslo significa in questo momento storico per l’immenso popolo cinese. Charta ‘08, il manifesto per la libertà sottoscritto da Liu Xiaobo e da altri intellettuali è stato firmato da dodicimila cinesi: un niente, una goccia nel mare. Cosa volete che rappresentino?

È su questo, sull’infimo peso da loro rappresentato, che giocano i discendenti di Mao – e lo dicevano sempre anche i capi sovietici. È la tipica autodifesa dei regimi: il popolo sta con noi e non con quei quattro intellettuali.

Sappiamo però che il potere può ordinare e uccidere, non convincere e cancellare. Nessuno può dimenticare quell’uomo solo, totalmente solo, con in mano un sacchetto di plastica, che si piazza davanti alla colonna di carri armati sulla piazza Tien An Men, e la ferma. È la più straordinaria immagine di quel che significa resistenza umana. Liu Xiaobo è oggi quel che quell’uomo solo è stato tanti anni fa.

Che domani il mondo intero, inclusi gli assenti, sia costretto a pensare a un uomo come lui è il segno di una vittoria, la manifestazione del potere dei senza potere.