Il gelo del risentimento

Pigi Colognesi parla del risentimento che pervade la nostra vita quotidiana. Orfani di Dio, non sappiamo chi incolpare degli imprevisti sgradevoli che segano la nostra vita

A volte sei lì che cerchi di capire come ti stanno andando le cose, di cogliere l’elemento inafferrabile che pure accomuna tante situazioni in cui sei implicato, di dare un nome al filo sconosciuto che unisce molti sguardi che incontri. A volte ti capita di sentire una parola che descrive perfettamente quell’elemento comune, quel filo. Così è stato per me quando, nella recente prolusione del cardinale Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Cei, mi sono scontrato con la parola «risentimento».

Il mio dizionario dice che si tratta di un «atteggiamento di avversione verso qualcuno per un’offesa ricevuta». Ecco, mi sono detto, è proprio così. I discorsi che senti, per strada o attraverso i mezzi di comunicazione, sono spessissimo il lamento di chi, sentendosi offeso, ce l’ha eternamente con qualcuno. Il dibattito politico è ridotto a rinfacciarsi le colpe. Succede qualcosa che non va o ti capita un dolore e subito reagiamo risentiti, come se avessimo subito un torto. Persino nei rapporti più stretti, magari in un incontro di amici, circola il fiato gelido di un rancore a malapena velato, il mugugno di chi in fondo si sente tradito nelle sue aspettative, non si riconosce al suo posto e si domanda astioso di chi sia la colpa.

Il dolore, l’insoddisfazione, la domanda di giustizia – da sempre molle per un impeto di ricerca, di superamento, per uno slancio in avanti – si ripiegano su se stesse e diventano, appunto, risentimento. Ma contro chi? Dio è scomparso dall’orizzonte e non si può più – o non si osa – neanche bestemmiarlo. Non rimane che prendersela con lo stato, il comune, l’autista di fianco al semaforo, il collega oppure addirittura l’amico, la moglie, i figli.

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Ben sapendo, in fondo, che la colpa non può essere loro. Qualcuno se la prende con se stesso, immaginandosi di non essere all’altezza (di che?) per colpa sua e ingaggiando una estenuante lotta per migliorare le proprie performance. Lotta dallo scontato esito fallimentare; sorgente di nuovo risentimento.

Il conte Ugolino, il protagonista del fondo dell’inferno dantesco, è inchiodato per l’eternità al proprio risentimento. Il suo nemico in vita, il vescovo Ruggieri, l’ha condannato a morire di fame con due figli e due nipoti in una lugubre torre e lui gli divorerà per sempre la nuca. Dante, contrariamente all’immaginario popolare più frequente, ha raccontato che l’estrema profondità della buca infernale non è un fuoco che brucia; è un lago di ghiaccio dove ogni barlume d’umanità è impietrato dal gelo. È la zona dei traditori, ma di Ugolino Dante non racconta il peccato, bensì la tragica morte e l’ancora più tragica vendetta. Ugolino sa a chi dare la colpa, può vendicarsi. Ma non ne ha nessuna soddisfazione; il suo rancore risentito non trova sollievo. Esattamente come le lacrime dei dannati che lo circondano: invece di consolare nello sfogo del pianto si congelano sopra e dentro gli occhi come un vetro tagliente. Egli – e noi nel nostro risentimento – è proprio come descriveva il Curato d’Ars: «Coloro che serbano rancore sono infelici: hanno l’espressione preoccupata ed uno sguardo che sembra divorare ogni cosa attorno a sé».

Cosa fa Dante? Si lascia decisamente il risentimento alle spalle: «Noi passammo oltre». Sa bene che è inutile soffermarvisi, che è «cortesia» non strappare dagli occhi quelle inutili lacrime congelate. Bisogna andare avanti per raggiungere la stretta via che conduce al Purgatorio.

 

 

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