Questa mattina a Milano il Ministro del lavoro e politiche sociali, Maurizio Sacconi, inaugurerà l’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Si tratta di un’occasione rilevante, al netto della carica retorica che inevitabilmente hanno simili manifestazioni, per provare a cogliere gli orientamenti governativi su un tema non secondario in un tempo difficile come quello presente.
Tre sono a nostro avviso le grandi priorità (abbozzate anche nell’ambito del Libro bianco sul futuro del nostro modello sociale, presentato dallo stesso Sacconi nove mesi fa) che a partire da quest’Anno europeo dovranno trovare risposta entro la legislatura.
La prima è quella di un coordinamento reale degli interventi tra i differenti livelli istituzionali. Attualmente i trasferimenti in denaro verso la stessa platea di beneficiari (le famiglie sotto il livello di povertà) sono prioritariamente affidati allo Stato centrale, ma Regioni e Comuni svolgono un ruolo non residuale sul tema, grazie alle competenze riconosciute loro dalla legislazione sulle politiche sociali e dalla Costituzione. Per non essere da meno, anche molte Province si sono messe in moto per sostenere le famiglie in difficoltà, nonostante il ruolo affidato loro dalla Costituzione sia in questo campo pari a zero.
Qual è il problema di questa proliferazione dei livelli di intervento? Si spendono molti soldi per i poveri (anche se in misura molto minore rispetto alle medie europee), senza che però vi sia una programmazione unitaria, integrata e condivisa. Insomma, ognuno va per la sua strada. Il risultato finale è l’inefficacia: spesso gli interventi monetari si sommano, moltiplicando le erogazioni verso alcune categorie di utenti a tutto discapito di altri che risultano esclusi da tutto. Con un’aggravante: l’assenza di un sistema informativo comune rende impossibile sapere chi sono quelli che ricevono troppo e chi invece non riceve nulla.
Strumento principale per discriminare i beneficiari – seconda priorità – è oggi il modello ISEE, ovvero l’indicatore della situazione economica introdotto nel 1998 e da allora sommerso da numerose e incontrovertibili critiche, fino a essere ritenuto ampiamente inadeguato al raggiungimento degli obiettivi di equità per cui era stato pensato. Non aiuta infatti a capire esattamente di quali redditi e ricchezze reali possa far conto una famiglia e non riesce a tenere in debito conto i carichi famigliari (figli, disabili, anziani) e le spese ad essi connessi.
L’utilizzo di un sistema omogeneo su tutto il territorio nazionale per selezionare i beneficiari sommato alla centralità dei trasferimenti nazionali, introduce la terza priorità, legata alla necessità di edificare un modello di affronto al problema della povertà capace di tenere conto delle notevoli differenze di costo della vita presenti nei vari territori. Trasferimenti uguali per tutti, dalle Alpi a Lampedusa, discriminano evidentemente chi vive in aree con un costo della vita più elevato, aggiungendo un’evidente iniquità di tipo territoriale a quelle precedentemente osservate.
Come affrontare congiuntamente questi tre temi? La risposta è prefigurata nel Libro bianco, là dove si fa riferimento al “ruolo responsabile delle organizzazioni caritatevoli come dei servizi socio-sanitari territoriali e delle autonomie locali”, soggetti indispensabili per la selezione dei destinatari degli interventi nazionali e per la definizione di percorsi virtuosi finalizzati a integrare in modo razionale le provvidenze monetarie garantite dallo Stato.
C’è insomma bisogno di un nuovo patto di solidarietà tra tutti i soggetti, pubblici e privati, attivi sul tema della povertà. Occorre un salto di qualità, per provare a prefigurare una modalità innovativa e unitaria di intervento, capace di colmare un vuoto storico nel nostro sistema senza ripercorrere esperienze fallimentari come quella del Reddito minimo garantito sperimentato una decina di anni fa.
Serve un nuovo modello ISEE, modificato dove necessario e integrabile a livello locale. Serve un’integrazione tra tutti i territori e tra le diverse politiche (assistenziali, della casa, sociali, formative e del lavoro), per razionalizzare gli interventi e connettere strettamente assistenza e integrazione sociale.
E ancora, serve un’applicazione piena e definitiva della sussidiarietà, riconoscendo alle grandi opere di carità un ruolo strategico nella programmazione, organizzazione e gestione degli interventi, a cominciare dalla Social card, strumento utile ma da ripensare. L’Anno europeo può essere la grande occasione per rispondere a questa sfida epocale.