L’allarme è già stato lanciato: nel 2010 saremo sottoposti a uno sfiancante bombardamento su Caravaggio. Per i quattrocento anni dalla morte del pittore che chiamano “maledetto”, tanto per renderlo più simpatico e moderno, saremo ingozzati come oche da patè di mostre e mostriciattole, dotti volumoni e inserti di rivista, fictions, film, canzoni e dvd. E, ovviamente, convegni. Su quasi tutto quello che si può scrivere dopo la prima parte del titolo «Caravaggio e…»: i caravaggeschi della bassa Maremma, la musica polifonica a Malta nel primo seicento, l’iconografia scandinava di san Matteo, la solitudine esistenziale dell’uomo moderno.
Già si levano voci – del tutto comprensibili – che invitano al silenzio. Aggiungerei soltanto che questo silenzio non può rimanere vuoto, ma deve essere pieno di sguardo. Ai suoi quadri. Uno sguardo che non pretenda subito di interloquire, frapponendo tra sé e l’opera l’ovvietà del già saputo o la mole ingombrante delle cognizioni tecniche, storiche, critiche, psicologiche che abbiamo in testa.
Un episodio mi ha istruito molto in tal senso. Ero andato con due amici nella chiesa romana di sant’Agostino. Com’è noto, nella prima cappella a sinistra c’è la caravaggesca Madonna dei pellegrini. Sulla soglia di una casa, riconoscibile come una di quelle della Roma seicentesca, si affaccia la Vergine con in braccio il figlio; il suo bianco collo così come il corpo di Gesù bambino sono illuminati da luce vibrante che proietta un’ombra sullo stipite.
Davanti a questa carnalissima rivelazione del divino stanno i due pellegrini che danno il titolo alla tela. Sono inginocchiati e a mani giunte. L’uomo si appoggia al bastone e mostra in primo piano – sgradevolmente per la sensibilità di allora, e per la nostra – i piedi nudi e sporchi per il viaggio: è un pellegrino vero. Della donna, anziana, vediamo quasi solo il viso con lo sguardo perduto nella contemplazione dell’apparizione.
I miei due amici, che vedevano il quadro per la prima volta, sono estasiati; mi ringraziano per averli portati lì e mi sciorinano tutto quello che sanno già di Caravaggio: il primato della realtà, l’uso della luce, la valorizzazione della gente comune eccetera. Io li invito a guardare ancora, a guardare meglio, a guardare più a fondo; e più silenziosamente. Dico che non stanno vedendo bene.
Un filo irritati dalla mia insistenza, guardano di nuovo e mi ripetono le stesse cose. E quando riaffermo che non stanno guardando bene sbottano: «Cosa c’è che non vediamo?». Non si erano accorti che stavano guardando una fotografia e non l’originale, in mostra da qualche parte del mondo.
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Ora, è vero che oggi le tecniche di riproduzione fanno miracoli, ma si riesce ancora a distinguere una foto dall’originale. Il fatto è che i miei due amici non erano tanto disposti a guardare davvero, ma più preoccupati di confermare a se sessi ciò che sapevano già.
Quand’è così, tutte le nostre informazioni, che sarebbero utilissime, fanno invece da filtro alla conoscenza vera. Ma «la conoscenza è sempre un avvenimento», perciò nuova a ogni occhiata. Che si tratti di un quadro di Caravaggio oppure del volto di un amico. O del proprio.