Oltre a riportare la notizia degli ultimi scontri tra cristiani e induisti, causati da un’immagine blasfema di Gesù pubblicata su un abbecedario in India, lo stesso giorno il Corriere della sera rendeva noto che dal 2003 nell’Iraq post-bellico sono stati uccisi 825 cristiani.

In effetti quello irakeno è sicuramente il caso peggiore nel panorama della discriminazione nei confronti delle comunità cristiane in paesi a maggioranza musulmana. Il sinodo tenutosi nella primavera del 2009 ad Ainkawa, vicino ad Erbil, nel Kurdistan, ha proprio fatto conoscere al mondo la situazione dei cristiani e delle loro prospettive in quella terra martoriata dal terrorismo jihadista.

Monsignor Louis Sako, arcivescovo dei Caldei di Kirkuk dal 2003, ha spesso denunciato il tentativo di creare un clima di paura e di intimidazione che, attraverso attacchi ed uccisioni, spinge i cristiani ad abbandonare, nell’indifferenza del mondo occidentale, il Paese. Il clima è peggiorato soprattutto da quando, il 13 marzo del 2007, fu ritrovato il cadavere del vescovo caldeo di Mosul, mons. Rahho, rapito alcuni giorni prima.

Numericamente i cristiani non sono una presenza poi così ingombrante. Su una popolazione di 22 milioni di abitanti, infatti, essi sono solo il 3%, ma costituiscono il 35% di quella fascia di istruiti in grado di traghettare il Paese dalla barbarie alla civiltà. Questo perché non è affatto indifferente il contributo che essi portano in termini di opere educative e assistenziali.

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Le suore avevano scuole dappertutto prima che fossero nazionalizzate da Saddam Hussein. Queste hanno formato tanti musulmani. Anche i padri gesuiti avevano un collegio a Bagdad e una università. Le persone più conosciute hanno studiato da loro, come, ad esempio, il primo ministro Ayad Allawi. Ora la situazione è tornata a quella pre-Saddam; è possibile per i cristiani aprire scuole proprie, ma il più delle volte manca l’essenziale, come la sicurezza.

 

Anche le opere di carità ed assistenza, soprattutto ospedali e dispensari, sono stati spesso luoghi dove si è consolidata la convivenza fra cristiani e musulmani. Si capisce allora che colpire i cristiani significa sbarrare la strada alla possibilità di rinascita di tutta la società irakena e, forse, significa anche sbarrare la strada alla possibilità di influire positivamente su tutta la regione mediorientale.

 

I numerosi rapimenti di cristiani, l’assalto alle loro attività commerciali, insieme a molte altre discriminazione nei loro confronti, sono il riproporsi di quell’antica mentalità islamista per cui i seguaci delle religioni del Libro (leggi cristiani ed ebrei) sono da considerarsi cittadini di serie B. Per tale ragione veniva imposto il pagamento di una tassa speciale, quella riservata ai dhimmi.

 

Oggi la tassa non c’è. Si usano altri metodi, molto simili a quelli di certi strozzini nostrani che fanno saltare i negozi di quanti non pagano il pizzo. Il cristiano rientra nella fascia di popolazione più istruita che, spesso, è anche la più ricca. Ciò genera invidia e per questo si impone di pagare il dazio. Il dazio per una presenza millenaria e carica di speranza per tutti gli irakeni. Il dramma di quel Paese, allora, è anche il dramma di un’Europa sempre più incapace di leggere la realtà e incidere positivamente nella storia.