Anche se in ritardo, devo ricordare un centenario molto importante. Era il 16 gennaio 1910 quando Charles Péguy pubblicava Il Mistero della carità di Giovanna d’Arco. Un capolavoro di poesia, di teologia, di cristianesimo vissuto. Péguy ha 37 anni e da dieci spende tutte le energie fisiche e le poche risorse economiche per tenere in piedi i Cahiers de la quinzaine (quaderni quindicinali).

Letteralmente si consuma per questo suo periodico, a cui affida la missione di tenere desti i giovanili ideali di giustizia e verità; quelli per cui si era buttato a corpo morto per far riconoscere l’innocenza di Dreyfus e aveva aderito al partito socialista. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, nel suo piccolo atelier di rue de la Sorbonne a Parigi, Péguy si sfianca per contattare gli autori, sistemare i manoscritti, impaginarli, correggere le bozze, cercare gli abbonati, raccogliere i fondi necessari.

Ma più il tempo passa più Péguy si sente ed è di fatto isolato, abbandonato, vinto. È sempre sull’orlo del fallimento, quasi nessuno si occupa del suo lavoro. Pochi capiscono la sua martellante critica alla demagogia che domina il mondo culturale e politico, il suo disperato allarme per una umanità che muore sotto i colpi dell’intellettualismo, del compromesso, dell’ideologia. Molti dei suoi vecchi compagni di strada lo abbandonano; quelli nuovi, i cristiani, (Péguy ha infatti ritrovato la fede) non lo capiscono e sospettano dell’ex socialista, anche perché, per rispetto della contrarietà della moglie, non fa battezzare i figli.


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Lui, arrancando, tira dritto; sa che in qualche modo la ritrovata fede avrebbe salvato anche gli ideali della gioventù socialista; non negandoli, ma inverandoli. Così nasce il Mistero. Nel maggio del 1909 Péguy aveva fatto, in quanto riservista, l’abituale esercitazione militare. Gli era capitato per caso di tornare nella natia Orléans e di sfilare in parata avanti alla statua della sua più celebre concittadina, Giovanna d’Arco, da pochi mesi proclamata beata. Le aveva già dedicato una lunghissima opera teatrale quando aveva 23 anni, facendone una specie di socialista ante litteram.

La domanda inquieta di Giovanna era: Come si fa a salvare tutti, a far giustizia a tutti? Dopo quella parata Péguy decide di riprendere in mano il suo vecchio testo e di aggiornarlo. Comincia col fare delle aggiunte sulle pagine stampate, poi si rende conto di aver troppo da dire e riscrive tutto da capo. Porta il manoscritto in tipografia e preme perché il Cahier venga pubblicato nel numero di Natale del 1909. Ma correggendo le bozze – era scrupolosissimo in questo lavoro – gli vengono nuove idee. Soprattutto un nuovo problema: la salvezza che Giovanna cerca non è più solo quella che si risolve con la giustizia umana; ora, da cristiano, si pone la questione della salvezza eterna.

Nessuno deve vivere nella miseria materiale, ma nessuno deve neppure essere escluso dalla misericordia divina, abbandonato alla dannazione. Così a ogni nuovo giro di bozze il poema si ingrandisce. Quando già i tipografi sono spazientiti da questo continuo rifacimento, Péguy ha un ultimo colpo di genio: in soli otto giorni inserisce il lungo monologo in cui Madame Geravaise rievoca il dramma della crocifissione, il dolore di Maria dietro il figlio che porta la croce e lo strazio di Cristo che grida l’angoscia di un Dio che si arresta di fronte alla libertà che non lo accetta. Da rileggere.