Il libro non l’ho ancora letto, sarà dunque necessario tornarci più avanti. Qualcosa però vorrei già dirla. Dario Di Vico in questi ultimi mesi, sostanzialmente da quando ha abbandonato la vice-direzione del Corriere della Sera, si è impegnato a dar voce a una realtà economica che tanto pesa nelle rendicontazioni quantitative, quanta poca voce ha nelle decisioni concrete: non solo le piccole imprese, ma anche le partite iva e i professionisti che dietro a esse operano.
Ha girato il paese, soprattutto il Nord, ha per primo intercettato le “imprese che resistono” e i “contadini del tessile”, ha seguito convegni e partecipato a iniziative varie e ne ha puntualmente riportato in prima pagina del giornale gli umori, i problemi e le rivendicazioni. Già molto il Corriere aveva fatto negli ultimi tre anni dedicando all’argomento, sempre per iniziativa di Di Vico, due intere pagine dell’inserto settimanale riservato all’economia in cui regolarmente si sono descritti casi di Piccole e medie imprese di successo e si è fatto il punto su singoli problemi del comparto.
Si può anzi pensare che questa rubrica dell’inserto economia fosse propedeutica a tastare il terreno e a portare nel tempo il tema in prima pagina dell’intero giornale, tanto che raggiunto l’obiettivo, anche in presenza delle circostanze legate alla crisi internazionale, la rubrica è sparita, sostituita da una più limitata e generica pagina dedicata alle imprese.
Dario Di Vico ha fatto dunque molto per portare all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che tutti conoscono, ma a cui pochi danno il giusto rilievo al di là delle affermazioni di facciata. Il momentaneo esito finale di tutto questo lavoro è condensato nel libro “Piccoli. La pancia del paese” appena uscito per Marsilio e che, appunto, non ho ancora letto. In un articolo di qualche giorno fa l’autore spiega il perché del titolo richiamandosi soprattutto all’apologo di Menenio Agrippa, ma a me rimane in piedi una domanda: perché pancia e non cuore e cervello?
Con il termine pancia siamo soliti evocare qualcosa di istintivo, di non razionale e questo dice dell’origine del fenomeno piccola impresa, molto meno della sua realtà odierna. Oggi, non solo per me, quello della Pmi è per il nostro paese, come più volte ho su queste pagine argomentato, un modello originale di sviluppo che ci ha fatto uscire prima e meglio dalla crisi: passione imprenditoriale e tenacia al limite della testardaggine nel perseguire un’idea imprenditoriale.
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Cuore e cervello a cui la pancia fornisce propellente. Almeno nella sua parte di punta, quella però che traccia la strada a tutte le altre, il mondo delle piccole imprese è sempre più cosciente delle proprie caratteristiche, tanto da resistere con cognizione di causa e orgoglio alle accuse di nanismo imprenditoriale.
Il vero problema è la rappresentanza politica, il farsi soggetto. Ma su questo la vera notizia della settimana è che forse il 10 maggio prossimo venturo, e dopo quattro anni di lavori preliminari, il cosiddetto “Patto del Capranica” giungerà a maturazione. Cinque associazioni di rappresentanza di questo mondo, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti, CNA e Casartigiani daranno vita, in quella data o poco più in là, a una holding con un presidente a rotazione semestrale per presentarsi con un’unica voce ai tavoli decisionali. Certo, perché prima di consigliarla ai propri associati, vedasi Confindustria, l’holding è bene cominciare a farla tra associazioni.