Uno degli argomenti in discussione la settimana scorsa ha riguardato il contenuto e la forma di quella “riforma dell’educazione” che, secondo il parere generale, è necessaria agli Stati Uniti. Il presidente Obama ha presentato un sua proposta e i politici hanno, ovviamente, cominciato a discutere secondo i loro interessi ideologici e di parte.

Gli ultimi numeri sia di The New York Times Magazine che di Newsweek hanno dedicato la loro storia di copertina alla riforma dell’educazione, ma mi sembra interessante discutere dell’argomento partendo da un precedente articolo di Lisa Miller, che si occupa della cronaca religiosa a Newsweek. L’oggetto dell’articolo è la riforma del piano di studi all’Università di Harvard, dove vengono educati molti dei futuri leader del Paese (cfr. “Harvard’s Crisis of Faith: Can a Secular University Embrace Religion Without Sacrificing its Soul?” nel numero di Febbraio 2010).

La vicenda comincia nel 2006, quando un gruppo scelto di professori prepara una proposta di revisione del piano di studi dell’Università. Il progetto era guidato da Louis Menand, critico letterario e professore di inglese, vincitore di un premio Pulitzer. Nella proposta, il gruppo concludeva che gli studenti avrebbero dovuto seguire almeno un corso in una materia definita Ragione e Fede. I professori affermavano che ogni futuro leader moderno dovrebbe sapere qualcosa della religione, dato che la maggior parte dei conflitti nazionali e internazionali che influenzano il futuro di questo Paese sono di natura religiosa.

Quando furono rese note le loro conclusioni, si scatenò una dura lotta tra sostenitori e oppositori di questo punto centrale nella riforma costituito dall’insegnamento della religione. L’opposizione era guidata da Steven Pinker, psicologo evoluzionista e molto popolare come professore. Il punto sollevato da Pinker era che “il compito primario di una educazione ad Harvard era la ricerca della verità attraverso l’indagine razionale, quindi non vi era in esso nessun ruolo per la religione”. Un corso su Ragione e Fede, sosteneva, avrebbe creato la sensazione che esse fossero due strade sullo stesso piano per raggiungere la verità. Invece, secondo lui “la fede è una pratica, la promozione della ragione è ciò per cui l’Università esiste”.

In effetti, il motto di Harvard è Veritas, adottato nel 1843, ma precedentemente era Christo et Ecclesiae (Per Cristo e per la Chiesa). La separazione tra fede e ragione ad Harvard è iniziata nella prima parte del XIX secolo e Pinker insiste sul fatto che questa secolarizzazione dell’Università rappresenti una conquista che non può essere in alcun modo compromessa. Come sottolinea la Miller, tutto il lavoro di Pinker “è coerente, all’insegna del concetto generale che la visione di un mondo scientifico e razionale sia la più elevata conquista della mente umana”. Secondo la Miller, la moglie di Pinker, la scrittrice Rebecca Goldstein, gli ha detto: “Tutte le forme di irrazionalità ti infastidiscono, ma la religione è l’irrazionalità che ti infastidisce al massimo”.

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Comunque, nel 2006 Pinker vinse la battaglia e la religione non fu inserita nel piano di studi principale. Ora però l’argomento è tornato alla ribalta e la battaglia si è riaccesa. Menand accusa Pinker di fondamentalismo per la sua insistenza nell’affermare che il ragionamento scientifico è l’unica strada alla verità. Menand tuttavia non parla della fede come una via alla verità, ma sostiene che “la religione è importante” nel mondo d’oggi ed è importante per gli studenti di Harvard.

 

Nell’articolo della Miller vi sono altri aspetti interessanti della discussione di Harvard, ma quanto esposto è sufficiente a descrivere la confusione che vi è nella più prestigiosa università della nazione. Come scrive la Miller: “Harvard non riesce a fare i conti con la religione”. Devo confessare che nella discussione le mie simpatie vanno a Pinker. Ovviamente non sono d’accordo con la sua posizione, ma almeno lui prende sul serio la questione della fede come una via per la conoscenza. L’approccio di Menard in termini di “importanza”, invece, lascia da parte la questione della verità.

 

Entrambi dovrebbero studiare le parole di Benedetto XVI per La Sapienza, quando rimase vittima del “fondamentalismo scientifico”: “Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso.

 

In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità”.