Oriano Vidos, Paolo Trivellin, Giuseppe Nicoletto, Walter Onagro, Riccardo Fusi, Diego Anemone, Emanuel Giuseppe Messina, Mario Nencini. Questi nomi, queste persone hanno in comune, almeno per me, solo una cosa: i giornali nei giorni scorsi riferendosi alla loro professione li hanno presentati tutti con lo stesso termine. Imprenditore. Non conosco nessuna di queste persone e, dunque, per nessuna potrei testimoniare a favore o contro, ma mi ribello lo stesso a questa omologazione.

I primi quattro hanno deciso di togliersi la vita perché non erano più in grado di mandare avanti la propria azienda, di pagare i collaboratori e i fornitori. In quel gesto dettato probabilmente dalla solitudine, oltre che dalle disavventure economiche che la crisi ha sicuramente ingigantito ma forse non prodotto, c’è la dichiarazione di fallimento che ogni vero imprenditore teme più di quella eventuale del tribunale. L’uomo solo al comando, come spesso si può sinteticamente descrivere la posizione dell’imprenditore, emerge in questi frangenti in tutta la sua fragilità.

Per l’uomo il lavoro è occasione di conseguimento dei necessari mezzi economici di sostentamento, di manifestazione delle proprie capacità, di realizzazione di desideri. Certo non per tutti gli occupati è possibile centrare contemporaneamente questi tre obiettivi: ma a tutti deve essere data la chance di raggiungere almeno il primo. Dunque è una questione vitale a cui una società sana deve dare risposta: ridurre la disoccupazione è il primo obiettivo sociale ed economico che chiunque abbia a cuore il destino di un popolo debba porsi.

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Il lavoro, però, non esiste in natura, va creato. Se anche in piena crisi gran parte della popolazione del nostro Paese non ha sostanzialmente cambiato le proprie quotidiane abitudini di vita credo che molto del merito sia di quelle persone che hanno rischiato in proprio per realizzare un’impresa spesso combattendo logoranti battaglie, prima che con i propri concorrenti sul mercato, contro la burocrazia di enti locali, la miopia di istituti di credito, la conflittualità sindacale fine a sé stessa ed un diffuso sentimento di ostilità e gelosia.

E’ indubbio, e sarebbe grave dimenticarsene, che dietro il successo di un’impresa c’è sempre l’identificazione e la dedizione intelligente di chi ci lavora, a tutti i livelli gerarchici, dal più giovane al più anziano, ma non è ancora adeguatamente sottolineato, mi sembra, il ruolo fondante dell’imprenditore.

E tuttavia egli è una persona come tutte le altre, spesso purtroppo determinato dall’esito della propria azione più che dall’approfondimento del desiderio da cui quell’azione è stata provocata: di fronte al profondo insuccesso, che sembra rendere inutili anche le fatiche di altri, anzi che le moltiplica togliendogli una prospettiva, per alcuni la solitudine genera il dramma. Senso di responsabilità o infinita debolezza? Non sta a noi giudicare: certo c’è una compagnia tra uomini che può lenire queste sofferenze e sta a noi renderla incontrabile a tutti.

E gli altri quattro nomi della lista iniziale? Solo affaristi impelagati nell’ultimo scandalo nostrano e di cui le intercettazioni ci hanno riportato la grettezza e la smisurata cupidigia.