Suoni, musiche e, più spesso, rumori ci martellano tutto il santo giorno. Tanto da produrre ricorrenti allarmi per eccesso di inquinamento acustico. Ci manca il silenzio ma, più ancora, ci manca il canto. Quello spontaneo che sboccia dal troppo pieno di una soddisfazione e dal piacere di essere insieme, quello segnato dalla melodia, dal ritmo, dal rincorrersi delle voci, dall’esplodere e ritirarsi del fiato.
Nella liturgia cattolica un canto così è l’Alleluia. Per i quaranta giorni della Quaresima ne siamo sati privati, ma dopo Pasqua ci inonda da tutte le parti. Alleluia è trascrizione di una parola ebraica; la sua prima parte – hallelu – è un invito a lodare, a ringraziare, a far festa a qualcuno. La seconda parte dice in forma abbreviata l’impronunciabile nome della persona cui quel ringraziamento giubilante si rivolge: Jah, cioè Jahweh, cioè Dio.
Alleluia è parola che sboccia naturalmente in canto. Nei secoli é stata rivestita dalla musica più disparata, ma sempre improntata a baldanzosa sicurezza, a giovialità, ad allegria. L’Alleluia è infatti il canto pasquale per eccellenza, perché il giubilo che esprime è frutto della sicurezza nella resurrezione di Cristo. Tra le infinite possibili, mi limito a due proposte di ascolto.
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La prima riguarda la cantata che Johan Sebastian Bach ha dedicato proprio al giorno di Pasqua. È quella che porta il numero BWV 4 e si intitola Christ lag in Todesbanden, cioè Cristo giaceva nei lacci della morte. Infatti l’inizio è una struggente Sinfonia che esprime tutto il silenzio, attonito e nello stesso tempo carico di attesa, del Sabato santo, anzi delle ore, dei minuti immediatamente precedenti l’imprevedibile evento della resurrezione. Tutto sembra tacere, poi il coro esplode cantando che, è vero, tra noi uomini niente può vincere la morte, ma – Alleluia – Cristo l’ha sconfitta. Da qui in avanti tutte le sezione della Cantata, sette in tutto, si concludono con un Alleluia. Ognuno è diverso dall’altro, non solo perché cantato di volta in volta da un solista, da un duetto o dal coro; è diverso perché è inesauribile la sorgente del giubilo, la sorpresa che fa cantare.
La seconda proposta ci porta a Igor Stravinskij e precisamente al terzo movimento della Sinfonia dei Salmi, del 1930. Il testo – si tratta infatti di una sinfonia che prevede la presenza del coro – è offerto dall’ultimo componimento del salterio, quel salmo 150 in cui l’autore sacro chiama a raccolta tutti gli strumenti e le voci per lodare Dio. Salmo che non casualmente si conclude – e così suggella tutta la raccolta dei 150 componimenti – con un esultante Alleluia. Stravinskij, che usa la traduzione latina, conduce questo movimento di sinfonia come una successione di ondate. L’Alleluia non è mai gridato, ma sussurrato, quasi fosse consapevole di tutto il dolore, personale e storico, da cui sgorga: il Venerdì Santo. Poi il ritmo si accende e le voci esplodono, per tornare ad essere quasi un soffio, che coincide col battito del cuore. Un canto struggente e certissimo.