Un vulcano di idee (sbagliate)

L’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajokull ha procurato parecchio scompiglio. E ha scatenato commenti inappropriati

L’eruzione del vulcano islandese dall’impronunciabile nome – Eyjafjallajokull – ha procurato parecchio scompiglio. Per molti giorni i voli aerei sono stati bloccati e una parte mondo è rimasta a piedi; dagli statisti alla gente comune, dai calciatori in trasferta agli operatori economici. I danni sono stati ingenti. Ma l’impronunciabile Eyjafjallajokull ha scosso anche i pensieri di più di un paludato commentatore.

 

Un motivo ricorrente è la constatazione della debolezza umana di fronte alla potenza della natura; debolezza resa ancora più evidente dalla connessione globale in cui siamo abituati a muoverci e che la nube di cenere vulcanica ha reso impossibile.

Bernard-Hemry Lévy ha scritto immaginificamente: «Rabbia del piccolo vulcano, arroventato dalla sconfinata arroganza e dall’indecenza degli uomini. Silenzio, dice il vulcano. Silenzio, adesso parlo io. Che nessuno osi più fiatare: che le vostre macchine volanti siano, fino a nuovo ordine, bandite dai cieli».

A parte il fatto che non capisco che male abbia fatto io al vulcano impronunciabile perché mi debba costringere a star fermo, questa personificazione della natura mi sembra impropria. È verissimo che l’uomo ha violato e viola spesso l’equilibrio naturale e ne paga sempre le conseguenze. Ma non se ne esce certo tornando a una natura paganamente intesa; anche perché essa era al contempo generosa nutrice e indifferente distruggitrice.

In analogo ordine di pensieri si collocano coloro che hanno visto nella nube di cenere la sconfitta della tecnica e della scienza umane di fronte all’imprevedibilità degli eventi naturali. Certamente la presunzione tecnicista secondo cui con i nostri ritrovati possiamo garantirci tutto quello che vogliamo è stata messa in grave crisi. Altrettanto certamente l’arroganza scientista, che non ha saputo nemmeno prevedere il fenomeno, è stata ridimensionata. E questo non può che essere un bene. Ma si dovrebbe andare fino nella critica alle esorbitanti pretese tecnico-scientifiche, non cercare di cavarsela con una battuta scettica o una cinica rassegnazione.

Per non lasciare da sole tecnica e scienza nel loro scacco, un altro commentatore, Gabriele Romagnoli, ha loro accomunato l’impotenza della religione: anch’essa non ha «saputo precedere». A questo punto, scrive, «genuflettiamoci all’imponderabile, a quel che consessi di scienziati e conclavi di sacerdoti trascurano». E cioè? «Che quella cenere è l’unica sicura profezia cui siamo destinati». Sembra una conclusione saggia, ma è nichilismo facile.

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Anche a noi è stato detto, il mercoledì delle ceneri, che siamo polvere e in polvere ritorneremo. Ma quella polvere non è il nostro destino, né il destino di tutto. L’uomo si ribella a considerarsi come un ciottolo rotolante, casualmente sopravvissuto nell’intervallo tra una catastrofe e un’altra. Si ribella alla conclusione del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese; guarda caso è proprio un compaesano di Eyjafjallajokull che pone all’indifferente gigante della natura la domanda ultima: «A chi piace o a chi giova codesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?».

 

La natura non risponde niente e l’islandese muore. Ma questa conclusione non ci basta, come non è sufficiente l’idealizzazione pagana della natura Forse vale la pena rileggere un brano di san Paolo: «Sappiamo bene che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto». Un parto non conduce però al nulla, ma a una nuova creazione.

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