In questi ultimi mesi, nel corso della mia attività imprenditoriale e nell’organizzazione in particolare della manifestazione fieristica EIRE, ho avuto modo di incontrare e discutere con imprenditori, autorità pubbliche e professionisti che operano nel settore del real estate italiano. In questi incontri si è presto arrivati a parlare della situazione generale del mercato e di conseguenza delle difficoltà che molte di queste imprese attraversano.
Personalmente ritengo che sia tempo di gettare la maschera: si parla oggi in alcuni frangenti o sui giornali di ripresa o di primi segnali di uscita dalla crisi. Ma la verità che tutti ben sappiamo è che siamo dentro a una crisi seria, che durerà a lungo e con cui dobbiamo fare i conti: le imprese del settore real estate si trovano nella condizione di dover decidere se tenere in piedi la propria attività oppure no, e quindi se investire economicamente su di essa e sulle persone che ci lavorano.
Infatti, al contrario di quanto fanno alcune multinazionali che hanno il profitto come unico scopo, le imprese, e quindi gli imprenditori, sono chiamati come uomini a interrogarsi sulla vera ragione per cui vale la pena investire energie, creatività, intelligenza e naturalmente anche soldi nella propria azienda, soprattutto in un periodo come questo.
Bisogna insomma chiedersi perché val la pena credere in quello che si fa. La domanda di fondo che questa crisi sta facendo emergere è proprio questa, e non è più una domanda moralistica o ideologica, e non riguarda solo il prevedere attività collaterali all’impresa come la beneficenza (seppur lodevole e importante), bensì concerne i propri più stretti interessi: chi me lo fa fare? A quale scopo? Faccio tutto questo solo per un tornaconto personale economico o di immagine?
La prima vera tentazione di fronte alla difficoltà e all’emergere del bisogno di uno scopo è quella di soffocarlo, di eliminarlo con la forza della volontà o della distrazione. E gran parte del mondo ci dice che questa è la via migliore, che l’individualismo come scelta antropologica e sociale è l’unico modo per uscirne.
Chi invece va più a fondo si rende conto che ha bisogno di uno scopo più grande per portare avanti anche l’impresa. È una sfida che riguarda tutta la propria vita, perché il lavoro, è una parte, seppur considerevole, di una cosa unita e indivisibile che è la persona.
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Credo che ognuno, guardandosi in azione, si scopre bisognoso di una “ragione di fondo”, che in ogni suo gesto ricerca e a volte, come nel mio caso, ha la fortuna di trovare. Io ho avuto la grazia di incontrarla nell’avvenimento cristiano. Condividere questa domanda, il paragone e la verifica delle esperienze di significato di ognuno, sono le cose che tengono davvero insieme e che iniziano a segnare la vita e a indirizzarla su un cammino condiviso.
La prima grande opportunità per tutti è quella di non essere soli, di potersi “mettere insieme” in questa domanda e in questa condivisione di esperienze. Infatti, il ritrovarsi insieme ad affrontare le sfide di questo periodo, ritrovarsi a far parte di una “community”, fa render conto che insieme si costruisce e si prosegue in un cammino.
Credo che la “community” di imprenditori che si sta formando intorno a EIRE è più di quanto ho cercato di dire. È l’esperienza di un punto di fuga, di un’apertura all’infinito. Al di là di quale sia la fede, la tradizione o l’educazione ricevuta da ognuno, tutti fanno esperienza del bisogno dell’oltre, di un’aspirazione del proprio cuore all’infinito.
Ognuno può dare respiro a questa tensione oppure soffocarla. Per me è più umano darle respiro ogni giorno e ogni istante, mentre lavoro, organizzo la fiera e cerco di svilupparla, in ogni incontro, scoperta, difficoltà, sfida, successo o insuccesso, cogliendo ogni contributo che nasce nei rapporti con le altre persone.