Il fenomeno non è quantitativamente molto rilevante e, forse, ha anche già esaurito la sua effimera fase di notorietà. Sta di fatto che per qualche giorno ha trovato spazio sui giornali e negli articoli dei commentatori dell’italico costume.

Sto parlando della pagina di Facebook sulla quale chiunque può pubblicare una specie di manifesto di protesta contro qualcuno o qualcosa che lo infastidisce pesantemente. Il sistema è semplice: la base fissa del manifesto è un riquadro nero, in fondo al quale campeggia la grande scritta: TI ODIO, tutto in maiuscolo; all’utente il compito di completare il proclama, inserendo l’oggetto della propria avversione.

Non credo che sia né interessante né significativo cercare di fare un’analisi di persone e cose detestate che sono comparse dal 27 gennaio fino a oggi. Prima di tutto perché il campione è decisamente ridotto e poi perché francamente gli oggetti di odio sono esattamente quelli che ci si poteva aspettare: Trenitalia (che vanta di essere stato il primo in ordine di apparizione), la compagna secchiona, l’autista disattento, il compagno d’autobus col fiato puzzolente e via di seguito.

E non alza certo la media che tra gli oggetti d’odio ci siano, come c’era da aspettarsi, i ciellini e perfino Dio (che però è ricordato solo come ventiseiesimo, preceduto da Gigi Marzullo). Insomma, mi sembra una stupidaggine che ha solo goduto di un brevissimo lampo di fortuna e su cui non conviene soffermarsi più di tanto.

Ritengo più interessante, invece, considerare la banalizzazione della lingua (e quindi del ragionamento) che un episodio come questo dimostra. Intendo dire che è preoccupante osservare che parole pesanti, come il verbo odiare, vengono svilite a modi di dire del tutto superficiali, insignificanti, dietro i quali non c’è nessuna realtà proporzionata al peso della parola.

Si parla in fondo a vanvera, cioè come un fanfarone che non sa bene quello che dice, che la deve sparare grossa per farsi ascoltare dagli altri avventori del bar globale. È preoccupante che dilaghi questo modo superficiale e irresponsabile di parlare. Ma come si fa a dire che si odia lo spigolo della camera contro cui si inciampa al mattino o la cassiera scortese o la trota (tutte cose esecrate nella pagina di Facebook)?

Vuol dire che non si sa di cosa si sta parlando e non ci si accorge neppure di non saperlo. Vuol dire che la res, la cosa di cui la parola dovrebbe essere espressione, non è neanche lontanamente presente alla coscienza.

Odiare è una cosa seria, molto seria. Odio è quello di Caino per il fratello Abele, che segna tragicamente il principio della convivenza umana. Odio – per stare nel campo della letteratura – è quello di Jago che spinge Otello a uccidere la donna prima amata; odio è quello di Stavrogin, il “demone” in cui Dostoevskij ha sintetizzato la figura del nichilista contemporaneo.

 

Quando costoro dicevano “Ti odio” sapevano di cosa parlavano. E non era certo lo sfogo un po’ adolescenziale, un po’ epidermico e tanto stupido dei piccoli odiatori di Facebook.

 

Il triste sospetto è che costoro siano altrettanto irresponsabili anche quando dicono “Ti amo”.