Nel nostro Paese, terra di evasori e di spesso inutili tentatavi di stanarli, un nuovo redditometro si profila all’orizzonte, questa volta reso un po’ più minaccioso dalla crescente informatizzazione della vita (e quindi delle abitudini di spesa) dei cittadini. Tali abitudini sono sempre più sotto controllo e ciò consentirà al Fisco di indagare sui viaggi, le ristrutturazioni, le iscrizioni ai club esclusivi per confrontare il redditi dichiarati con il tenore di vita.

Tra i parametri in via di adozione per il nuovo redditometro – parametri che sembrerebbero essere tutti ragionevoli e capaci di risvegliare nell’opinione pubblica un giusto senso di indignazione – va tuttavia rilevato come, anche questa volta, non si è resistito alla tentazione di inserire un déja vu, una nota stonata e preoccupante, vale a dire l’indice della “iscrizione dei figli alle scuole private” (titolo di Repubblica), qua e là corretto dai giornali più filogovernativi con un “…ma solo quelle con rette elevate” ovvero ridefinite “scuole esclusive”.

Se ci si chiede quale sia lo scopo dell’operazione, immediatamente sorge un sospetto sgradevole: le scuole “private” non sono ben viste da una certa classe di persone (e da certe ideologie) e, di conseguenza, si può incrementare il consenso ai propri progetti se le si include tra i beni di lusso, quelli inutili, gli sperperi di ricchi evasori senza scrupoli.

Occorre che questo sospetto sia fugato, da subito. Da tempo, infatti, a norma di legge, le scuole non statali non sono più private ma paritarie e sono inserite a pieno titolo nel sistema nazionale dell’istruzione; sono spesso scuole di ordini religiosi, con radici ben più risalenti rispetto alle scuole di stato, e con una mission educativa apprezzata non solo dai ricchi ma da tutti quelli che le conoscono più da vicino; sono in moltissimi casi realtà non profit, che richiedono il pagamento della retta per supplire alla carenza tutta italiana di finanziamenti pubblici sufficienti alla loro sussistenza ma che poi fanno sconti alle famiglie numerose, accolgono pur con fatica ragazzi portatori di handicap, sono aperte ai figli delle famiglie immigrate che spesso le preferiscono alle scuole pubbliche perché nei loro paesi una scuola cattolica è sinonimo di qualità.

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E, ancora, come non ricordare che in alcune realtà regionali, tramite i buoni scuola, si sta cercando di introdurre una certa logica di competizione tra scuole statali e scuole non statali, tutta volta a migliorare la qualità del sistema scolastico nel suo complesso; si tratta di un processo che non ha ancora dato i suoi frutti più maturi ma che, almeno in certi casi, ha posto un freno alla chiusura indiscriminata delle scuole paritarie consentendo a molti istituti di tradizione di proseguire nella loro opera educativa a tutto vantaggio del pluralismo dell’offerta formativa, anche e soprattutto sul piano dei valori.

 

Certo, nella galassia delle scuole paritarie vi sono anche i “diplomifici” (fenomeno senz’altro riprovevole, ma a cui non si rimedia col redditometro) così come non mancano nel gruppo le cosiddette “scuole esclusive”. Sarebbe tuttavia interessante capire come le si andrà ad identificare, quale soglia determinerà la differenza tra una normale scuola paritaria ed una scuola sempre paritaria ma “esclusiva”, se si terranno in considerazione la composizione sociologica, le borse di studio, le accoglienze di handicap e stranieri, e via dicendo… Per non parlare dell’irrazionalità di un legislatore che prima “parifica” scuole pubbliche e scuole private integrandole in un unico sistema e poi considera l’iscrizione alle seconde una sorta di stigma alla stregua delle minicar, dei viaggi esotici e dei centri estetici.

 

Insomma, occorre che si faccia attenzione e non si cerchi di introdurre surrettiziamente, sfruttando il consenso che ovviamente riscuote una manovra governativa volta a risanare le pubbliche finanze, un favor per le scuole statali a scapito del pluralismo educativo e della libertà di scelta delle famiglie, uno dei capisaldi di una vera e propria politica sussidiaria.