La crisi oltre che economica e sociale è anche, e forse soprattutto, educativa. È sicuro ormai che quando si potrà tornare a descrivere la ripresa avremo meno imprese, realisticamente in media un po’ più grandi, ma sicuramente meno occupati.
Il cambiamento in corso, e che le migliori imprese avevano già intrapreso prima dell’inizio delle ostilità sui mercati internazionali, va certamente in questa direzione. Ciò pone al Paese, e a tutti gli uomini di buona volontà, gravi problemi.
Per l’uomo il lavoro è occasione di conseguimento dei necessari mezzi economici di sostentamento, di manifestazione delle proprie capacità, di realizzazione di sé. Dunque è una questione vitale a cui una società sana deve dare risposta: ridurre la disoccupazione è il primo obiettivo sociale ed economico che chiunque abbia a cuore il destino di un popolo debba porsi. Certo non per tutti gli occupati è possibile centrare contemporaneamente questi tre obiettivi: ma a tutti deve essere data la chance di raggiungere almeno il primo.
E tuttavia tre domande si impongono: come mai più di novantamila posti di lavoro, secondo Confartigianato, non trovano tuttora risposta nei settori seguiti da quell’associazione? E come mai nel nord industriale, ma anche nel sud agricolo, non cala la domanda di lavoro immigrato? E come mai, infine, la tensione sociale è fortunatamente ai minimi da sempre?
La risposta più logica è che anche quando si perde il lavoro si continua a mantenere un livello di vita materiale decente perché c’è la famiglia che fa da vero ammortizzatore sociale, perché c’è il secondo o terzo lavoro in nero e/o part-time o per qualunque altro motivo che rende comunque percorribile l’ipotesi di non adattarsi a lavori umili o da apprendere ex novo.
Non si risponda con l’argomento dell’età per cui oltre i quarantacinque anni imparare un lavoro è difficile: migliaia di badanti dell’est Europa abbandonano famiglie e abitudini a età spesso superiori e imparano in fretta lingua, consuetudini e lavoro.
È la nostra testa che, anche comprensibilmente, non è disposta a ritararsi sulle eventuali mutate condizioni di contesto e preferisce “tirare a campare”, o aspettare la grande occasione, piuttosto che rimettersi in discussione. La pancia è piena, la testa è vuota e i piedi restano fermi.
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Se così non fosse non si spiegherebbe un altro fenomeno solo apparentemente lontano dal primo: in periodo di passaggio al digitale terrestre i negozi di elettrodomestici sono svuotati degli apparecchi televisivi di ogni tipo e formato, quando basterebbe acquistare il decoder al costo di poche decine di euro. Il Mondiale alle porte motiva più del contributo al risparmio familiare. Lo stesso dicasi per le lotterie e i giochi di ogni ordine e grado.
È ovviamente positivo che le persone non cambino sostanzialmente le proprie abitudini materiali di vita, neanche sotto l’urto della crisi. Tuttavia non nascondiamocelo: il momento che viviamo chiede cambiamenti a tutti: imprese, sindacati, singole persone. E tutti dobbiamo impegnarci a ricercare nuovi equilibri che salvaguardino vecchie ricchezze.