Che fine ha fatto quel trilione (milione di miliardi) di dollari spedito in Africa in mezzo secolo di aiuti? Dopo una intensa e paziente ricerca l’economista dello Zambia Dambisa Moyo, ha trovato la risposta: in niente.
Anzi, in un’arma ancora più minacciosa del niente, perché tutti quei soldi non solo hanno arricchito dittatori e criminali o si sono persi lungo le strade di impossibili progetti, ma hanno addirittura impedito di combattere la povertà.
Più aiuti e meno sviluppo, è questa l’equazione agghiacciante della studiosa che ha compiuto una brillantissima carriera nelle istituzioni occidentali e che il Time ha inserito nella lista delle cento persone più influenti del mondo.
La tesi sarà magari un po’ troppo radicale e forse in qualche passaggio un po’ troppo frettolosa ma solidamente ancorata a dati inoppugnabili e a cronache obbiettive. Il titolo del suo libro, La carità che uccide (Rizzoli), fa certo a pugni con un’altra idea e un altro concetto di carità “divina”, ma è ovvio che qui quella parola da noi tanto amata va intesa nel senso più tecnico e finanziario di “aiuto economico internazionale”, che sia sotto la forma di prestiti a bassissimi tassi di interesse o sotto la forma di sovvenzioni “a fondo perduto” (le emergenze restano fuori da queste analisi).
Il che significa una montagna di denaro degna dei depositi di zio Paperone. Dai primi anni Cinquanta, sulla spinta filosofica del piano Marshall che tanto bene aveva fatto all’Europa devastata dalla guerra, governi e studiosi dell’Occidente si sono dannati a trovare soluzioni per risolvere il problema della povertà dell’Africa subsahariana.
E progressivamente, decennio dopo decennio hanno sperimentato risposte diverse: le infrastrutture prima, l’assistenza in loco poi, più avanti il sostegno diretto ai governi locali, le grandi agenzie dell’Onu con il contorno di qualche Ong, donazioni “private” (che poi in realtà raccolgono gran parte dei soldi tra la gente comune) e così via.
La Guerra Fredda ci ha messo del suo, con l’Urss e l’Occidente in gara a finanziare dittature comunque sanguinarie e corrotte, da Menghistu a Mobutu. Negli anni Novanta si è puntato sulle democrazie, e in questo decennio del Duemila si è fatta una gran confusione tra rockstar e dirigenti della Banca Mondiale. Alla fine il re degli aiuti si è scoperto nudo.
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Negli ultimi trent’anni i Paesi maggiormente dipendenti dagli aiuti sono decresciuti dello 0,2% annuo, e tra il 1970 e il 1998 il tasso di povertà è cresciuto dall’11 al 66%, come registra Niall Ferguson. Tra la fine del secolo scorso e oggi il volume degli aiuti è diminuito, nonostante le continue promesse dei vari vertici mondiali: come sanno anche i nostri trentenni che non abbandonano più la mamma, soldi non ce n’è per nessuno.
Il che provoca scandalo e lamento e improperi contro i governi occidentali ipocriti, i quali ipocritamente prendono i soliti roboanti impegni sapendo che non potranno mantenerli. In questo ping pong si continua a perdere tempo e contatto con la realtà.
Sono ancora pochi quelli che per esperienza o per studio hanno il coraggio di riconoscere i fatti crudi, per spietati che siano: “Gli aiuti – scrive la Moyo – sono stati e continuano ad essere un totale disastro politico economico e umanitario per la maggior parte del mondo in via di sviluppo”. E quei pochi fanno una enorme fatica a diffondere un pensiero diverso. Ma è questa la sfida, pena l’irrisorietà.