E’ stato rimarcato in molti modi il fatto che nell’ultimo discorso di rilievo il presidente degli Stati Uniti non abbia menzionato l’espressione “guerra al terrorismo”, che invece aveva guidato gran parte della politica dell’amministrazione Bush.

Un’altra espressione assente, e non solo dai suoi discorsi, ma da quelli di tutti i leader politici contemporanei è “guerra alla droga”. Eppure ciò che nei decenni si è formato attorno alla fabbricazione, al traffico e al consumo dei narcotici, non è da meno del colossale nodo di interessi e di morte costituito dal terrorismo.

Nelle recenti analisi sulla criminalità mondiale il sistema-droga viene considerato minaccioso per le democrazie e il livello di vita delle nazioni sviluppate tanto quanto i gruppi globali del terrore di matrice islamista e ultranazionalista.

Per i centri studi americani le armate del narcotraffico messicano non sono più un fenomeno “soltanto” criminale. Il potere che esprimono e al quale ambiscono sempre più è di natura globale, estendendosi a tutti i settori della vita sociale: famiglia, costume, politica, cultura, e persino religione, con un “fai da te” di vaga e informe matrice cristiana e modellato sulla Morte intesa come una sorta di divinità.

In questo senso lo scontro tra democrazie moderne e narcocrimine sarà sempre più violento e ultimativo, sempre che le democrazie trovino in se stesse le ragioni per sostenere una guerra molto sanguinosa. Nelle ultime settimane è esploso il caso della Giamaica, dove battaglioni di truppe speciali hanno dovuto ingaggiare furiosi combattimenti per arrestare il boss di Kingston. Si tratta certo di un piccolo paese, ma la forza simbolica di quegli avvenimenti è enorme.

E’ immediate pensare alle favelas che il governo brasiliano vuole bonificare dalle gang dei trafficanti in vista delle Olimpiadi. Oggi è guerra e domani sarà compromesso, come accade dovunque la forza criminale è tale da costituirsi come “altro Stato”. Consideriamo le maras, le gang di El Salvador e dell’Honduras, immortalate nello sconvolgente documentario La vida loca, il cui autore, un giornalista francese, è stato ucciso dopo aver vissuto un anno con loro. Si calcolano 80mila aderenti, pronti a tutto: chi mai in patria riuscirà a sgominarle? Le maras sono state fondate dai figli degli immigrati clandestini negli Usa e rispediti a casa, gli eredi di un mondo di miseria miseria e fallimento.
 

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La pressione delle armate della droga sull’Occidente benestante è spaventosa e non è un bene che i leader politici la rubrichino come “questione delinquenziale”. Recentemente è tornato sotto i riflettori il caso del Montenegro, la cui indipendenza ai danni della Serbia era stata fortissimamente voluta dagli Usa e da alcuni Paesi europei, in prima fila l’Italia. E ora proprio Washington e l’Europa si preoccupano per le connessioni troppo pericolose tra il narcoboss Saric e i vertici del giovane stato adriatico. Della trimurti criminale italiana sappiamo molto (e comunque vale sempre la pena di leggere Gomorra, indipendentemente dalle opinioni, spesso pretestuose, sul suo autore), ma troppo poco sappiamo delle mafie slave e orientali che imperversano nel Mediterraneo.

Accade anche che droga e terrorismo siano connessi. E’ stato calcolato che il 90% degli introiti dei Talebani venga dall’oppio coltivato a piene mani in Afghanistan. Ciò dovrebbe dar da pensare a George Bush, che tra gli errori strategici dell’inizio della guerra afghana dovrà inserire anche il non aver distrutto i campi quando poteva farlo. In pratica con i soldi ricavati dagli occidentali che si fanno di eroina i Talebani attaccano gli occidentali mandati in Afghanistan a combatterli.

  

C’è poi il caso delle Farc colombiane, protette da Venezuela ed Ecuador, e aspramente combattute dall’ex presidente Uribe o delle organizzazioni caucasiche collegate ai vari gruppi islamisti, che hanno il compito di impaurire Mosca.

  

Dunque dobbiamo combattere anche a causa della droga. Certo, per farlo con qualche efficacia bisognerebbe cominciare a consumarne di meno.