C’è un evento misterioso nella storia della Chiesa che in modo particolare abita la mia riflessione: la sparizione di alcune antiche comunità cristiane, spazzate via dalla violenza, dalle divisioni fra i fratelli, dalla noncuranza degli altri popoli.
Già sant’Agostino, alla fine della sua vita, aveva avvertito, sotto il peso delle invasioni vandaliche, il brivido di questa tragica possibilità. L’Africa del Nord aveva allora circa 300 vescovi. A cosa si sarebbero ridotte quelle diocesi dopo la conquista musulmana? E le comunità nate dal primo viaggio apostolico di san Paolo, situabili nell’odierna Turchia? Non ne rimane quasi traccia. Tutto sembra ridotto a piccole presenze, perseguitate, che vengono conosciute per lo più a causa di tragici fatti di sangue.
Diversa è la situazione in Libano, Giordania, Siria, Terrasanta. Lì i cristiani sono state minoranze importanti o addirittura, in Libano, presenze la cui storia si identifica con la storia stessa della nazione. Eppure, dovunque in questi stati, assistiamo a un esodo che sembra non avere fine. La stessa cosa, e con il medesimo dolore, avviene in Iraq, soprattutto dopo la guerra anti Saddam, guerra che ha liberato il Paese dal dittatore, ma ha causato morte, immane distruzione e instabilità.
Manifestando grande attenzione a tutto ciò, insieme a una grande sollecitudine pastorale, il Papa ha voluto un Sinodo straordinario sulla presenza della Chiesa in Medio Oriente. Siamo a un tornante decisivo della presenza dei Cristiani nei luoghi che hanno visto la gesta di Gesù e degli apostoli. Quali speranze per la terra da cui la speranza stessa è sorta e si è diffusa in tutto il mondo?
Proviamo a immaginare, quasi percorrere, alcune linee fondamentali della riflessione sinodale. La prima: l’unità dei Cristiani. I discepoli di Gesù devono imparare di nuovo, dopo secoli e, in taluni casi, millenni di divisioni, a pensare assieme e a lavorare assieme.
«Abbiamo un avvenire e dobbiamo prenderlo in mano» – afferma significativamente l’Instrumentum laboris del Sinodo. E continua: «Ciò dipenderà in gran parte dalla maniera con cui sapremo collaborare con gli uomini di buona volontà in vista del bene comune delle società di cui siamo membri. […]. Il nostro abbandono alla Provvidenza di Dio significa anche, da parte nostra, una maggiore comunione». La ridotta incidenza dei cristiani è, infatti, anche il frutto malato delle loro divisioni, delle loro incomprensioni quando non delle loro lotte interne.
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Seconda: le potenze del mondo devono capire (ma sarà possibile?) che la sparizione dei cristiani dal Medio Oriente sarà una grave fonte di instabilità per quella regione, un passo indietro nel cammino verso la democrazia. «È opportuno ricordare – afferma il già citato documento – che i cristiani sono “cittadini indigeni” e che, pertanto, appartengono a pieno titolo al tessuto sociale e all’identità stessa dei loro rispettivi Paesi. La loro scomparsa rappresenterebbe una perdita per questo pluralismo che ha sempre caratterizzato i Paesi del Medio Oriente. Senza la voce cristiana, le società mediorientali risulterebbero impoverite».
Terza: le comunità cristiane del mondo occidentale devono sostenere con pellegrinaggi, con progetti di lavoro, finanziati attraverso fondi pubblici e privati, con campagne di stampa, la permanenza dei cristiani lì dove sono nati e cresciuti. La lotta al terrorismo è anch’essa parte di questa battaglia.
Davide contro Golia? Parrebbe proprio di sì. Ma noi sappiamo anche come è andata a finire. Tutto il segreto sta, dunque, nella fede e nel coraggio che sanno creare le premesse delle grandi svolte storiche. Se Dio vorrà.