Oggi in Italia fare impresa non è facile. Lo dicono le statistiche che ogni anno ci relegano sempre più in fondo nelle graduatorie sulla libertà d’impresa. Siamo al 78 posto (su un totale di 183) nella classifica mondiale “Doing Business” sulla facilità di fare impresa, mentre l’Istituto Bruno Leoni ci colloca all’ultimo posto di una graduatoria europea, appesantiti soprattutto da risultati negativi in voci come “libertà dal fisco” e “libertà della regolazione” (quest’ultima misura il grado di intrusività di norme e regole, l’affidabilità del quadro normativo e la qualità della pubblica amministrazione).
Lo dicono le statistiche; ma soprattutto lo racconta la testimonianza diretta di tanti imprenditori costretti a dedicare una ampia parte del proprio tempo alla burocrazia, costretti a fare i conti ogni giorno con un groviglio di leggi, normative, e regolamenti che finiscono per imbrigliare l’energia propulsiva che c’è in ogni attività imprenditoriale.
Giustamente in questi giorni lo Statuto delle Imprese, una proposta di legge presentata dall’onorevole Raffaello Vignali, si è conquistato ampio spazio su tutti i media: si tratta di un’iniziativa assolutamente lodevole, innanzitutto perché prende le mosse dal riconoscimento di un valore che c’è, quello delle nostre Pmi, e punta a dargli slancio in modo che possano liberare le migliori energie fissando alcuni diritti imprescindibili delle imprese, aprendo gli spazi necessari per il loro sviluppo, e snellendo il carico burocratico, che arriva a pesare circa 4,5 punti del nostro Pil. Lo Statuto proposto è una reale valorizzazione delle Pmi e del loro quotidiano contributo al benessere di tutto il Paese.
Dal testo viene anche un impegno alla riduzione del carico fiscale, soprattutto per i redditi reinvestiti, che può dare ossigeno alle aziende, favorire l’innovazione e creare occupazione. Anche l’importantissima lotta all’evasione fiscale non deve generare una nuova burocrazia ma utilizzare con maggiore efficacia strumenti esistenti.
Lo Statuto va nella direzione indicata dalla Comunità Europea nello Small Business Act, già recepito dal Governo italiano nel nostro ordinamento. Sia lo Statuto che lo Small Business Act riconoscono le imprese come luoghi che favoriscono la creatività, la flessibilità nel seguire i cambiamenti dei mercati e il senso di responsabilità contro una diffusa cultura del sospetto nei confronti delle Pmi.
Non si tratta di concedere privilegi, ma di creare le minime condizioni perché chi ha capacità e risorse per “fare impresa” possa cimentarsi in questa avventura che può generare lavoro e ricchezza per tutti. Anche i ministri Calderoli e Tremonti hanno dichiarato la necessità di liberare le imprese da impedimenti all’imprenditorialità stessa. Diranno gli esperti se questo richiede una modifica dell’articolo 41 della Costituzione. In ogni caso va sottolineato che la ratio dell’articolo sta nell’affermazione “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale…”, un’affermazione condivisibile, mentre non lo sono altrettanto le interpretazioni strumentali e forzate che di questo articolo sono state fatte negli ultimi anni.
Non illudiamoci: la crisi non finirà da sé. La prima condizione che può favorire la ripresa è fare in modo che le imprese possano operare libere da quei lacci e lacciuoli che sono un onere ingombrante in tempi normali, ma che possono diventare una condanna in congiunture come quella attuale. La ripresa può arrivare solo se si scommette sulla capacità di costruzione positiva di ogni persona. Una capacità che non va imbrigliata da una falsa contrapposizione fra interessi privati e interesse pubblico, ma va sostenuta in un’ottica di reale sussidiarietà.
Quanti imprenditori durante questa crisi hanno fatto grandi sacrifici per non chiudere l’azienda, per non dover licenziare i dipendenti? Scommettere sulla libertà e sulla responsabilità di chi guida le imprese, questo sarebbe il più grande contributo della politica alla ripresa economica.