Di Edoardo Nesi ho letto molto. Sempre ne apprezzo lo spirito e lo stile, non sempre le idee. Anche della sua lettera immaginaria al Presidente del Consiglio (“Caro Silvio, ecco che farei se fossi ministro per le imprese”, Corriere della Sera, 21 luglio 2010) questo è quello che penso.

L’autore, per chi non lo conosce, è un quarantenne ex-imprenditore tessile di Prato ormai diventato scrittore a tempo pieno e anche di buon successo: dopo aver lavorato per vent’anni nell’azienda di famiglia l’ha venduta nel 2004 e ha abbracciato la nuova vocazione che lo ha portato spesso a mettere a tema dei suoi romanzi l’impresa, la sua e più in generale quella di Prato.

Ora, con tutte le piccole e medie imprese di successo che abbiamo in giro per il Paese, anche in questi momenti non certo facili, occorre raccontare proprio di un’impresa che si è dovuto vendere per evitarle guai peggiori? Certo, l’imprenditore di successo non può mettersi a fare lo scrittore: non ha tempo, capacità, voglia. Questo compito spetterebbe a giornalisti, editori, studiosi che, in verità, qualcosa negli ultimi anni hanno cominciato a fare.

Il tema, che però si rimanda ad altra occasione, è quello dell’impresa, segnatamente della piccola e media, oggetto di romanzi e film: fateci caso quando nella trama c’è, direttamente o di traverso, un’azienda, quasi sempre se ne parla male, come luogo di lotte di potere, di perpetrazione di nefandezze ai danni dei collaboratori, dei clienti, dell’ambiente e di trame ai danni dell’amministrazione pubblica.

Oppure, ed è il caso del nostro autore, di aziende destinate a soccombere per l’incuria di un’istanza superiore che non ha saputo tutelarle. Nella stragrande maggioranza dei casi la realtà non è questa e occorre battersi perché emerga il suo strabordante aspetto positivo. È quello che tenterò di fare anche qui.

Nella sua “lettera” Nesi avanza quattro proposte e un’osservazione: 1) Proposta: “Penserei solo a trovare un lavoro alle figlie e ai figli degli italiani, che oggi escono dalle scuole tecniche, dai licei, dalle università e cominciano a passare da un vuoto lavoro temporaneo all’altro”. Da tempo lo abbiamo ormai imparato sulla nostra pelle: il lavoro, quello serio, non lo si crea dall’alto, ma dal basso, non per legge, ma per l’impegno di centinaia di migliaia di imprenditori che hanno un’idea e la sanno realizzare e rinnovare nel tempo con il contributo fattivo dei propri collaboratori.

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Occorre poi impegnarsi con le famiglie perché indirizzando i giovani verso un titolo di studio “nobile” rischiano di ipotecare la disoccupazione futura dei figli. Di lavoro ce n’è più di quanto si pensi, basti pensare a quello artigianale, ma è diverso da quello che ci hanno insegnato a cercare.

 

2) Proposta: “Comincerei a dire che l’Italia ha bisogno di nuove aziende. […] Aziende che ricordino la cruda lezione del declino del manifatturiero e siano capaci di superarla e sublimarla. Aziende che producano prodotti che non si possano fabbricare a prezzo più basso in Cina o in India. […] Migliaia e migliaia di aziende piccole e furbe e libere ancora tutte da inventare, che riescano a vendere prodotti che ancora non esistono”.

 

Ben venga la licenza poetica, ma viene da domandarsi dove questo scrittore viva. Da sempre l’Italia è il paese delle aziende di nicchia, di prodotti di qualità non facilmente replicabili, in tutti i settori. Se la crisi riusciamo a superarla un po’ meglio di altri paesi occidentali è perché siamo rimasti ancorati al manifatturiero, secondi in Europa anche nel 2009 per esportazioni dopo la sola Germania.

 

Se questo paese ha qualcosa che tutti ci invidiano è proprio la creatività e la capacità di dare il meglio di sé proprio nelle situazioni più difficili: la maggior parte delle imprese sta già sperimentando modalità innovative per stare, con successo, su mercati sempre più globali e concorrenziali. Certo non è, come sembrerebbe auspicare Nesi, l’innovazione che ha portato l’uomo sulla luna, ma quella incrementale, quasi sinonimo di cambiamento.

 

3) Proposta: “Direi che l’unico modo per far nascere queste aziende è metter loro a disposizione il capitale, poiché oggi il sistema è bloccato, e né le famiglie né le banche possono o vogliono rischiare il loro denaro su nuove aziende capitanate da chi oggi ha meno di trent’anni”. Non è mai stata principalmente una questione di soldi. Senza capitali un imprenditore valido fa più fatica, ma arriva al traguardo, mentre con i soldi, pubblici o privati, si incentiva a fare impresa anche chi imprenditore non è, con tutte le conseguenze del caso.

 

I risultati della legge per l’imprenditoria giovanile, di per sé una buona legge, sono lì a dimostrarlo: molti sono partiti perché c’erano finanziamenti pubblici, quasi nessuno è rimasto in piedi quando i rubinetti si sono chiusi. Imprenditorialità e rischio sono due termini strettamente correlati e questo forse, con mille esempi a dimostrarlo, è il vero ostacolo da superare per un giovane che tuttora ha il miraggio, in troppi casi, del posto fisso e tranquillo. Appunto un miraggio. Senza dimenticare la quantità di imprenditori che, proprio nel momento del bisogno, hanno reinvestito capitali nelle proprie aziende.

 

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4) Proposta: “Andrei in televisione a reti unificate e ricorderei agli italiani, alle banche, all’Europa che un debito non è quel marchio di infamia che par essere diventato oggi, ma il patto antichissimo tra chi ha i soldi e chi sa lavorare, il necessario compagno di viaggio di ogni impresa e d’ogni persona”. Capisco il senso, soprattutto nella successiva versione metaforica che per brevità non riporto, ma attenzione: questa crisi ci arriva da un paese, gli Stati Uniti, che del debito ha fatto una disastrosa modalità di vita ed educativa.

 

Se debito significa speranza nel futuro e reperimento di risorse per costruire ben venga, al contrario se significa vivere al di sopra delle proprie possibilità e consumare nel breve periodo più di quanto si è stati in grado di produrre, Dio ce ne scampi e liberi.

 

5) Infine, un’osservazione: “(fare queste cose – ndr) diventerebbe la meritoria, necessaria, lungimirante apertura di credito che la sua generazione, la più ricca di sempre, farebbe a quella dei trentenni, che invece rischiano d’essere i primi italiani da secoli ad andare a stare peggio dei loro padri”.

 

E finiamola una buona volta con questa tiritera dei figli che non migliorano le condizioni materiali di vita dei padri: se uno ha fame dargli da mangiare è salutare, oltre che evangelico, ma se uno ha la pancia piena, anche per merito della generazione dei padri, “la più ricca da sempre”, spingerlo a mangiare ancora di più è un attentato alla salute e alla ragione. Sono contro l’obesità fisica e mentale.

 

Per ironia della sorte l’intervento di Nesi è impaginato nella sezione “Economia” sotto un articolo a sei colone il cui titolo è “L’industria sente la ripresa, ordini record. Impennata delle commesse, mai così alte dal 2005. Il fatturato sale dell’8,9%”. Caro Nesi, la vita è andata così, riservandole anche una bella fortuna, quella di poter seguire il proprio istinto e farne una professione.

 

Poiché però non si è mai visto il campione olimpico dei cento metri discettare su come condurre una partita di pallanuoto, per favore ci delizi con i suoi libri, ma senza imporci ragionamenti economici. Credo che riflettere sulla propria storia sia utile per capire dove si è sbagliato e, dunque, per farsene una ragione, non per scaricare su altri le proprie, in senso lato, responsabilità.