Durante lo scandalo del Watergate, un importante commentatore politico (di cui non ricordo il nome) disse che, con il moralismo usato nell’investigare sui peccati di Nixon, neppure San Francesco d’Assisi avrebbe potuto essere presidente degli Stati Uniti.

Questa affermazione mi ritorna spesso alla mente seguendo le audizioni al Senato dei candidati alla Corte Suprema, e continuo a meravigliarmi di come, di fronte a un esame così minuzioso di qualsiasi cosa uno abbia scritto, detto o fatto, vi sia ancora qualcuno disposto ad accettare queste candidature.

Oggi la situazione è decisamente peggiorata, come dimostrato in un interessante articolo di Jeffrey Rosen su The New York Times Magazine di domenica scorsa, dal titolo “La fine del perdono.”

Il problema per i peccatori oggi è internet. Per dirla semplicemente: a quanto pare, qualunque cosa venga messa in internet, qualunque cosa venga fatta per nascondere la propria identità quando si naviga o si chiacchiera in internet, rimarrà lì per per omnia saecula saeculorum, senza apparentemente alcuna possibilità di cancellarla (è deprimente pensare che nell’anno 3010 le mie capacità letterarie e di analisi verranno giudicate su articoli come questo!).

Rosen sintetizza il problema così: “Sappiamo da tempo che il web consente, in un modo mai sperimentato in precedenza, voyeurismo, esibizionismo e indiscrezioni più o meno volontarie, ma stiamo solo ora iniziando a capire quali costi comporti un’epoca in cui così tanto di quanto noi diciamo, o gli altri dicono su noi, rimane permanentemente sui nostri, pubblici, file digitali. L’incapacità di dimenticare di internet minaccia, quasi a un livello esistenziale, la nostra capacità di controllare le nostre identità, di conservare la possibilità di reinventare noi stessi e di ripartire da capo, di superare il nostro altilenante passato.”

Rosen prende in esame anche i tentativi per risolvere il problema di “giuristi, esperti di tecnologia e cibernetici” nella lotta “con la prima grande crisi esistenziale dell’era digitale” (la soluzione che preferirei sarebbe una dichiarazione di “Bancarotta reputazionale”. Personalmente sono pronto a qualcosa di simile già da lungo tempo!).

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Questo problema appare particolarmente pericoloso per l’ideale americano del “self-made man.” L’America si è costruita sulla possibilità di sfuggire al peso di essere definiti a priori dal luogo di nascita, dalla “tribù” di appartenenza, dalla classe sociale di provenienza, ecc., per creare da zero una nuova identità, modificando le proprie scelte di vita secondo le necessità o i propri desideri.

 

È questa capacità che ora viene minacciata da fenomeni quali Facebook, Twitter e altri strumenti di “social networking” (non usando nessuno di questi, sfortunatamente i miei dati non potranno essere trovati alla Biblioteca del Congresso di Washington, dove sembra approdi il materiale di Twitter).

 

Non voglio però scherzare su questo problema. Rosen fornisce esempi commoventi di vittime di questa situazione e mi dispiace che l’articolo non vada di più al fondo di questa crisi. Il problema sta nel modo in cui concepiamo la possibilità di costruire la nostra identità. La nostra identità di esseri umani è definita dal rapporto con il Mistero infinito che ci crea e ci sostiene in ogni secondo.

 

Questo Mistero è diventato un Uomo, Gesù Cristo, morto proprio per distruggere la nostra identità di peccatori, di nemici del Mistero, e renderci una nuova creazione dello Spirito Santo, dandoci una nuova identità come figli e figlie in Lui, l’unico beneamato Figlio del Padre. La secolarizzazione di questa esperienza di perdono del peccato, di redenzione, è ciò che ha portato al bisogno di dimenticare, ora però diventato apparentemente impossibile.

 

Solo in Cristo possiamo trovare il trionfo del perdono sulla dimenticanza.