È stata un’immensa tragedia banale quella che ha ucciso 21 ragazzi arrivati da tutt’Europa per sentire musica a Duisburg. Banale, perché ormai tutto quello che riguarda il mondo giovanile sembra essere rientrato in una routine. L’orizzonte è quello del consumo, neanche più troppo critico o trasgressivo. Sembra quasi che le mode abbiano definitivamente neutralizzato l’esuberanza propria di quell’età. Duisburg è stata una questione di cattiva organizzazione dell’ordine pubblico e nulla di più. Chiedersi perché tutti quei giovani (e non solo giovani, per la verità: l’adolescenza ormai ha confini fluidi) fossero lì; chiedersi se per caso cercassero qualcosa di diverso dal semplice rito del concerto: sembrano tutte domande fuori luogo. La sensazione è quella di un mondo a cui non interessa molto la questione dei propri giovani; o meglio, che l’ha archiviata nella presunzione di averla risolta.
Io non so se Duisburg sia stata solo una questione di ordine pubblico; non voglio dare connotati generazionali o esistenziali a una tragedia che probabilmente ha connotati tragicamente banali. Però faccio un passo indietro: e mi chiedo se qualcuno abbia ancora qualcosa di interessante da proporre per la vita di quei giovani. Se qualcuno si senta ancora interpellato dal loro destino. E chiedendomi questo sono tornato con la memoria su un testo meraviglioso letto pochi mesi fa. È un discorso che un grande scrittore americano, che amo moltissimo, David Foster Wallace, tenne nel 2005 ai giovani diplomandi del Kenyon College (Ohio). È un testo che dà il titolo a un volume recente di Einaudi (Questa è l’acqua), in cui oltre a questo discorso sono stati raccolti alcuni racconti di Wallace.
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Lo hanno categorizzato come un “piccolo manuale di filosofia pratica”. In realtà è molto di più. Quello che fa sobbalzare nella parole di Wallace è l’interesse verso il destino e la coscienza delle persone che gli stanno davanti. Era tempo che non mi capitava di leggere parole in cui l’interesse per i giovani fosse così evidente e appassionato. Wallace non fa la predica ai ragazzi. Li invita a guardare senza preconcetti il mondo in cui vivono, sembra prenderli per mano, guidarli a giudicare e riconoscere le mode che ne imbrigliano il pensiero e la libertà. Non grida, non distribuisce verità (anche se chiarisce che la verità che lo interessa è quella che «riguarda la vita prima della morte»).
«La cultura odierna», scrive, «ha imbrigliato le vostre forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità e libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato». È una libertà, spiega Wallace, non priva di aspetti positivi. Ma tra i vari generi di libertà ne esiste uno che è ben più prezioso. «Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare».
E allora, se il reale desta interesse in ogni istante, «avrete davvero la facoltà di affrontare una questione caotica, chiassosa, iperconsumistica trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose».
Come non augurarsi che un giovane possa una volta nella vita ascoltare e prendere sul serio parole così?