C’è un nuovo welfare che sta nascendo fuori dalle mura dello Stato. È un welfare pubblico, nel senso che continua a rispondere a fondamentali diritti di cittadinanza, ma non più (o non solo) prodotto dallo Stato e dagli enti locali.

È un welfare che viene chiamato in tanti modi (sussidiario, civile, pluralista) e che può declinarsi in forme diverse, ma del quale non si può più fare a meno. Non per abbandonare i più deboli al loro destino ma, al contrario, per garantire a tutti quell’equità che oggi non è più garantita.

Oggi stanno definitivamente saltando le resistente conservative a questo inevitabile cambiamento, imposto dalla storia prima che dalla forza delle idee. Il segno della inevitabilità di questo cambiamento è dato dal dibattito lanciato dal Corriere della Sera, inaugurato da un editoriale di Dario di Vico dal titolo hard rock: “Il welfare dei privati che sostituisce lo Stato”.

Finalmente se ne parla. Anche se, volendo fare le pulci alla luce della storia economica del nostro Paese, è stato lo Stato a sostituirsi durante il Novecento a quel che i privati hanno sempre fatto: prendersi cura di chi ha bisogno.

Il caso forse più esemplare è quello del welfare aziendale. Ricorrono giusto i 50 anni dalla morte di Adriano Olivetti, alla cui straordinaria e discussa personalità si deve un modello forse unico di rapporto tra impresa e lavoro, che al netto degli elementi di inevitabile inattualità giunge fino a noi come uno straordinario tentativo di creazione di benessere costruito prima e al di fuori di qualunque schema di tipo assistenziale statale.

E questo grazie non solo a un modello contrattuale decisamente favorevole ai dipendenti in termini salariali, ma anche e soprattutto alla disponibilità su larga scala di strumenti di welfare come, per esempio, l’assistenza medica, gli asili nido, la casa, una tutela ampia della maternità.

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L’esempio di Olivetti è certamente il più noto, ma tutta la storia del Novecento è percorsa da vicende di imprenditori capaci di prendersi carico dei molti bisogni dei propri dipendenti. Una storia di straordinaria rilevanza, che fu colpevolmente azzerata dagli anni del boom economico in poi, schiacciata da una tenaglia composta dalla crescente conflittualità sindacale e dalla pretesta del welfare state di essere l’unica possibile risposta ai bisogni delle persone.

 

Negli ultimi anni qualcosa ha ricominciato a muoversi, come dimostrano esempi interessanti come quelli costruiti all’interno di grandi aziende come Luxottica, Bracco, Boeringher, Peg Perego o Nokia.

 

Grazie al sostegno dei sindacati, in cambio di una maggiore produttività del lavoro in quelle aziende si parla oggi il linguaggio del welfare: forniture di beni alimentari, libri scolastici gratuiti, assistenza socio-sanitaria, fondi integrativi.

 

Buone prassi che mostrano come, al di là della insopportabile retorica sulla responsabilità sociale d’impresa, ci sono spazi di manovra per ricostruire quel welfare aziendale che è andato perduto nel corso della modernizzazione del Paese.