E poi si continua a sostenere che la vecchia politica, altrimenti detta “Prima repubblica”, era peggio. Ma oggi possiamo ricordare con nostalgia le lotte leonine tra Craxi e De Mita, condotte a viso aperto e con vigore ideologico. E la bagarre democristiani-comunisti dei primi anni ‘70 o quella comunisti-socialisti degli anni ‘80.
Come le grandi (e qualche volta grandiose) drammaturgie delle correnti scudocrociate, bollate come “teatrino” dai nuovi leader che avrebbero voluto e dovuto “cambiare tutto” (mentre in questi anni, soprattutto gli ultimi, paghiamo il biglietto per operette con trame sempre diverse e finali sempre uguali).
Quanto vorremmo assistere a una di quelle epiche querelle tra fanfaniani e donatcattiniani, piuttosto che alla odierna maniacale messa in scena del processo di Montecarlo. Fa persino tenerezza ripensare alle notti brave romane dei “precursori” Renato Altissimo e Gianni De Michelis, oggi catalogabili come cose da educande.
E che dire dei governi balneari, tecnici, di transizione, ponte, mono e bicolori, preambolisti o di unità nazionale, quadri e pentapartiti, di sviluppo e di contenimento, riformisti e di prospettiva: formule partorite da quella fertilissima fantasia dell’Italia che fu – e alle quali molti sono tornati in questi giorni di furori e rancori per cercare un barlume che scacci la notte delle elezioni anticipate (altro tipico rito del passato).
All’epoca la gestione anche feroce del potere era accompagnata da cultura istituzionale raffinata e da un interesse profondo per le questioni fondamentali di contenuto – si pensi a una Dc lombarda riunita ad ascoltare don Giussani.
Nel passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica tutto quel mondo, che certo presentava crepe e scricchiolii, doveva venire soppiantato da un moderno riformismo liberale e dalle sue parole d’ordine: drastica riduzione dello Stato, meno tasse, libertà individuali e imprenditoriali, meritocrazia.
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Ma col senno di poi avremmo imparato che il fervore politico di quella fase era l’ultimo lascito del mondo vecchio, non l’alba di quello nuovo, che alla fine non abbiamo ancora visto. Qualche giorno fa, quindici anni dopo quella stagione di rivoluzioni annunciate, Angelo Panebianco sul Corriere della Sera ha posto un tema di nevralgico interesse mettendo a confronto le tre prospettive di sistema che ancora oggi si confrontano confusamente: presidenzialismo, parlamentarismo, federalismo.
Quindici anni dopo, cioè, i nodi non sono sciolti, ed è preoccupante rilevarlo, ma è soprattutto triste notare che nessuno dei nostri leader politici ha ritenuto interessante intervenire sull’argomento, impugnare una riflessione, dichiarare una prospettiva, esprimere una idea di nazione (sembrano troppo presi dalla madre di tutti i regolamenti di conti, a colpi di Dagospia, e dalla corsa alla ricollocazione dei dirigenti Rai).
Sarebbe bello lo facessero al prossimo Meeting di Rimini, dove in tanti come tutti gli anni vogliono partecipare: quale migliore opportunità per i Tremonti, i Calderoli, i Letta, i Maroni e tutti gli altri ministri e governatori e sindaci per confrontare con un popolo che ama la “res publica” le loro idee per l’Italia? Vorremmo tornare a respirare un po’ di vecchia, sana politica.