Negli Stati Uniti resta accesissimo il dibattito sulla libertà religiosa vista l’imminenza della decisione sulla costruzione di una moschea e di un centro culturale a due passi da Ground zero.
Secondo un recente sondaggio, il 58% dei cittadini di New York sarebbe contrario alla costruzione degli edifici in prossimità del luogo dove l’11 settembre di 9 anni fa si verificarono gli attacchi terroristici alle torri gemelle. Dello stesso avviso non sembra essere l’amministrazione newyorkese che ha da tempo dato il proprio assenso alla realizzazione del progetto all’interno di un edificio di 15 piani.
Insieme al sindaco Bloomberg, secondo il quale l’edificio è un “passo verso la vittoria contro i terroristi”, si sono da tempo schierati, forse un po’ a sorpresa, alcuni dei familiari delle vittime attraverso l’associazione September 11th Families for Peaceful Tomorrows. Sembra ormai non avere più alcun ostacolo la realizzazione della moschea, anche per l’unità di intenti dell’amministrazione con Sharif El-Gamal, l’Amministratore delegato della società che ha presentato il progetto.
Intervistato dal New York Times, Sharif ha dichiarato:“Noi siamo americani, musulmani americani, siamo uomini d’affari, donne d’affari, avvocati, medici, ristoratori, tassisti, e professionisti di ogni estrazione sociale”, quindi il centro rappresenta “un sogno americano condiviso da molti”.
Nei giorni scorsi anche la commissione per la preservazione storica ha dato il via libera con una votazione all’unanimità che ha sancito come non nascerà alcun problema di tipo estetico e storico con la costruzione dell’edificio. Dopo il voto della commissione, quella parte dei familiari delle vittime contraria al progetto, si è riversata in strada protestando con forza contro quella che definiscono una disgrazia, inveendo animatamente contro le autorità.
Nonostante le proteste, a cui si uniscono condanne eccellenti come quella di Sarah Palin, oltre a quelle di alcune organizzazioni ebraiche, il fronte pro-moschea sembra avere la strada spianata. Passerà quindi la linea di chi, con un’operazione da 100 milioni di dollari, intende dare un segnale per favorire la libertà religiosa e il dialogo tra la culture. Una sorta di invito alla popolazione americana a “porgere l’altra guancia” ai “fratelli musulmani”, che costituiscono una fetta minoritaria ma consistente del tessuto sociale statunitense.
L’unica strada che permetta agli Stati Uniti e al mondo occidentale di onorare al meglio le vittime dell’11 settembre, se davvero abbiamo a cuore la promozione di un dialogo che porti ad una convivenza duratura con la popolazione islamica, è quella di costruire con loro un ponte che abbia come fondamenta la fiducia e il rispetto della propria diversità.
Inoltre, come diceva Don Andrea Santoro, il sacerdote italiano ucciso in Turchia quattro anni fa “Ci vuole il doppio di bene per arginare il male”. Questo dev’essere l’unico obiettivo, che non va in alcun modo oscurato da interessi economici o da opportunismi elettorali. Speriamo che non sia questo il caso, anche se certamente l’altissimo valore finanziario dell’operazione fa storcere il naso ai maligni.
Inoltre, mai come in questo caso, andrebbe valorizzata l’opinione della cittadinanza newyorkese, oltre che quella dei familiari delle vittime, che come abbiamo visto, non sembrano essere entusiasti dell’operazione, per la quale permangono perplessità circa metodi e tempistiche.
Non serve fare paragoni con analoghe situazioni all’interno del vecchio continente: nella storia della democrazia americana la libertà religiosa è il fondamento di tutte le altre libertà. Ciò non toglie che il caso vada approfondito per evitare che la lezione di pragmatismo e di apertura all’altro tipica dell’esperienza americana non venga soffocata dall’occhiuto insinuarsi di ideologie di matrice islamista che abbiano come scopo la nascita di uno stato nello stato.