Tornato a casa ho avuto finalmente accesso alle fonti che consulto normalmente per scrivere questo articolo. Ciò nonostante, ho scelto un tema che ha ricevuto poca attenzione sui media: si tratta di un articolo su Christopher Hitchens di Liesl Schillinger del New York Times, nel numero del 15 agosto, 2010. La principale notizia della scorsa settimana è stata senz’altro il quinto anniversario dell’uragano Katrina e la minaccia dell’arrivo di una nuova sequenza di uragani. Tuttavia, non sono riuscito a smettere di pensare al dramma di Hitchens, molto più intenso della minaccia degli uragani.
Schillinger descrive la situazione in questo modo:
Due strenue battaglie sono in corso questa estate, una contro il cancro all’esofago del commentatore e critico Christopher Hitchens (che non apprezzerebbe l’uso della parola “battaglia” in questo contesto), e l’altra per la sua anima da parte di chi spera di convincerlo a convertirsi al cristianesimo in extremis… Nel numero di settembre di Vanity Fair ha descritto in un commovente articolo il suo viaggio “dalla terra dello star bene attraverso la dura frontiera che delimita la terra della malattia”.
Schillinger continua:
Il 6 agosto, The Atlantic ha pubblicato un video con un’intervista a Hitchens fatta a casa sua a Washington, che ha avuto un’ampia circolazione. Lo scrittore Jeffrey Goldberg ha chiesto a Hitchens come stesse. “Sto morendo” ha risposto. “Sarei molto felice di poter vivere ancora cinque anni”. Alla domanda: “Si sente offeso dalle persone che pregano per lei?”, Hitchens ha risposto: “No, no. Lo considero gentile, supponendo che stiano pregando per la mia guarigione”.
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Contemporaneamente, Hitchens ha negato sia la possibilità che il cancro lo porti a una tardiva professione di fede, sia, nel caso lo facesse, la validità di questa professione.
“Chi facesse una simile cosa sarebbe una persona terrorizzata e delirante, il cui tumore avrebbe invaso anche il cervello”, ha detto. “Non posso escludere che vi sia chi possa fare una cosa così ridicola, ma nessuno come me lo farebbe mai”.
Su questo tema Hitchens ha rimuginato fin dall’infanzia, quando decise che era “spregevole” confidare nella religione solo per conforto se essa “poteva non essere vera”. Da adulto le cui speranze riposano senza dubbio sull’intelletto, non nell’aldilà, egli conclude: “La letteratura, non la scrittura, sostiene la mente e, visto che non vi è altra metafora, anche l’anima”.
Hitchens non è stato l’unico intellettuale nato in Gran Bretagna la cui fede nella parola ha colpito l’opinione pubblica questa estate. Lo stesso giorno dell’intervista di Atlantic con Hitchens, lo storico Tony Judt è morto per sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva. Durante quest’anno, mentre la sua malattia peggiorava, Judt ha pubblicato saggi in The New York Review of Books, con la sua caratteristica risolutezza, su memoria, storia, politica e la sua lotta contro la malattia.
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In uno dei suoi ultimi pezzi, che ha dovuto dettare perché ormai incapace di scrivere, ha affermato: “Parlare, questa mi è sembrata la caratteristica di un’esistenza adulta. Non ho mai perso questa percezione”.
Meditando sull’importanza del linguaggio, ha scritto: “Sono più cosciente di queste affermazioni ora che mai nel passato. In preda a un disordine neurologico, sto rapidamente perdendo il controllo delle parole proprio quando la mia relazione con il mondo è ormai ridotta ad esse”.
Schillinger conclude:
Christopher Hitchens, grazie a Dio o grazie a chiunque altro, non ha ancora bisogno di un epitaffio e sta ancora producendo parole: parlando, scrivendo e mantenendo il credo che ha sostenuto lungo tutta la sua vita: il credo “nella libera ricerca, nella apertura della mente e nel portare avanti le idee per se stesse”».
Dopo aver letto questo articolo, mi sono procurato una copia del numero di Vanity Fair con il racconto di Hitchens su ciò che stava vivendo. Ciò che mi ha colpito maggiormente non è stata l’intensità con cui Hitchens rifiuta la ricerca di un “significato” del suo dramma (un rifiuto che considero seriamente come la sua libera scelta), ma il veicolo scelto, cioè la rubrica “Stile” di un periodico che celebra la “vanità” con Lady Gaga in copertina.
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In mezzo a tutto questo si trovano le parole di Hitchens:
Sono oppresso da un lancinante sentimento di spreco. Avevo piani concreti per il prossimo decennio e pensavo di aver lavorato sufficientemente per meritarmeli. Veramente non vivrò abbastanza per vedere sposati i miei figli? Per vedere risorgere il World Trade Center? Per leggere, se proprio non scrivere, gli annunci funebri per vecchi furfanti come Henry Kissinger e Joseph Ratzinger.
Tuttavia, a mio parere, Hitchens giudica questi pensieri nient’altro che sentimentalismi. Egli sa che la vera questione è un’altra: «Alla muta domanda “Perché io”, il cosmo risponde “Perché no?”».
In effetti, perché no è tutto ciò che il cosmo può rispondere nel linguaggio del suo “io scientifico”, per così dire, a meno che… a meno che parli un altro linguaggio che solo il cuore, se gli è permesso, può capire.
La vera domanda qui non è se Hitchens diventerà cristiano in extremis. La vera domanda è se egli spalancherà lo sguardo del suo cuore.