Il fatto è dolorosamente noto. Due ginecologi litigano in sala parto, a Messina, e la donna in gravidanza ne fa le spese, assieme al piccolo che ha in grembo. A lei viene praticato il cesareo, ma poi ha delle complicazioni che impongono l’asportazione dell’utero. Anche il nascituro soffre in modo drammatico: ha due arresti cardiaci; appena nato deve essere posto in coma farmacologico. Sono partite due inchieste: una interna della struttura sanitaria, l’altra della Magistratura.

La domanda, angosciante, è la stessa: il litigio dei medici ha fatto perdere tempo prezioso alle cure di mamma e bambino? O peggio è in qualche modo causa di errori nell’assistenza al parto?

E’ peggio della malasanità tradizionale. Qui è in gioco il rapporto fra paziente e medico. Ed è in questione un’altra importante facoltà: ascoltare. Alcuni anni fa un grande neurologo e scrittore, Oliver Sacks, l’autore di Risvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, raccontò la propria esperienza clinica in un avvincente libretto (Su una gamba sola), storia di un paziente (già medico) improvvisamente colpito ad una gamba per via di un incidente.

Il chirurgo che lo seguiva spiegava al neurologo che per lui l’intervento era riuscito, ma il guaio è che Sacks sentiva la sua gamba “morta”. Nessuno voleva dargli retta in quel reparto di ospedale londinese, quasi 30 anni fa.

Gli unici che lo comprendevano erano gli altri pazienti del reparto e una fisioterapista, figura allora considerata meno di niente dallo staff medico. Per Sacks quell’esperienza, per una volta dall’altra parte della barricata, diventava così una discesa agli inferi: “Ero entrato volente o nolente in una notte dell’anima”.

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Sono pagine splendide che ogni medico dovrebbe leggere, dove vengono citati la Bibbia, i poeti T.S. Eliot e John Donne, il mistico San Giovanni della Croce… L’uomo è uno, intero, e non esiste violenza maggiore di guardare ad esso come al pezzo di un problema tecnico. E dire che in fondo la gamba di Sacks non era certo un problema di vita o di morte.

 

Se ci immedesimiamo invece nella mamma di Messina, ci sentiamo distrutti e "ottenebrati" come Sacks, non ascoltati, non considerati, percepiti come il terreno di uno scontro tecnico. E la cosa sarà avvenuta al cubo, visto che drammaticamente qui le vite erano due. La vita della mamma, anche la sua fertilità futura, e la vita del bambino, la sua salute e il suo destino. Che razza di rispetto per l’uomo c’è nei nostri ospedali, nei nostri luoghi di dolore? Quale rispetto della vita? Quale attenzione al paziente e ai suoi racconti?

 

Ora ciò che conta è che il bimbo recuperi completamente e non subisca danni per la sua vita futura. Il ministro della Salute Fazio ha chiesto scusa alla mamma, da parte dello Stato. E’ un gesto nobile, che gli fa onore, ma la nostra esigenza di giustizia ci spinge a sperare che anche i responsabili vengano identificati e puniti.

 

Quello che poi un Paese civile dovrebbe fare è aprire un grande dibattito sui diritti del malato, sull’ascolto dei nostri simili, sulla grande attenzione alla vita che è compito anche di una società che pure permette l’aborto. Ma che, almeno a parole, lo vive come una sconfitta e come un male minore.

 

Siamo tutti come il papà e la mamma di Messina: ci sentiamo schiacciati dal meccanismo anonimo di una burocrazia che si scorda la nostra umanità. Sgomenti di fronte alla violenza senza volto che ci caccia nelle tenebre, nella notte dell’anima.