È ormai da qualche anno che il tema dell’identità ha travalicato gli studi e le ricerche etnologiche per diventare oggetto (purtroppo, viste le assurdità che si proclamano) di discussione televisiva o di confronto politico. Che cosa è l’identità di una persona? E di un popolo? Di una cultura, nazione, regione, comunità, villaggio? Parliamo di una piattaforma, di un recinto dai confini chiari o di una casa senza porte? E cosa accade quando le identità si incontrano, posto che esista una soddisfacente nozione di identità?

Non si tratta di una questione soltanto odierna. Basti pensare al mos maiorum dei Romani e alle problematiche nate dall’espansione militare arabo-musulmana o per venire più vicino a noi, ecco i tormenti e i drammi seguiti alla conquista dell’America Latina, dove nacque il termine di meticciato per dire che dall’incontro-scontro tra i due nasceva un terzo: una terza identità?

Certo è che la fine del Novecento e l’inizio del Duemila hanno riproposto l’incandescente questione accompagnata da una febbrile ricerca di comprensioni e soluzioni. L’Europa che vuole i suoi abitanti e Stati “uniti nella diversità” è da lungo impegnata nel risolvere il dilemma tra multiculturalismo e assimilazionismo (ambedue ormai rigettati come troppo ideologici, ma senza che si sia trovata una “terza via” praticabile e descrivibile). Mentre gli Stati Uniti ci hanno convinto con la narrazione del melting pot, non riuscendo però a spiegare in modo altrettanto efficace il fenomeno delle inner cities, dei ghetti urbani e del dilagare dei fenomeni di esclusione, per non citare la crisi quasi trentennale dovuta all’immigrazione selvaggia dei latinos.

Il Canada applica una versione del multiculturalismo talmente rigida che per molti si è rovesciata nel suo contrario: una sorta di gabbia. E mentre i modelli elaborati in Occidente sono sotto pressione cosa accade per il resto? Ben poco. Da altri mondi, da altre latitudini non sono arrivati contributi e slanci per affrontare l’onda generata dalla globalizzazione (e che insieme la condiziona): il nuovo inevitabile processo di rimescolamento mondiale.

Ci vorrà tempo, certo, ma intanto occorre proporre e sperimentare qualche cambiamento di prospettiva, indizio di un nuovo giudizio che potrà portare, chissà, a nuovi modelli. L’interpretazione – giuridica, filosofica e antropologica – di questo fatto è più che mai necessaria per favorire una convivenza pacifica, innanzitutto, e una integrazione reale.

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Le posizioni e i modelli che conosciamo, pur contrapposti, presuppongono identità originarie, fisse e immutabili, universi incomunicabili e dotati di leggi proprie. Di questa ossessione per la definizione di etnie e culture “originarie” abbiamo mille esempi provenienti proprio dalla cultura europea, dall’antropologia culturale così come dalla più banale storia coloniale. Perciò l’inizio di una nuova considerazione del tema coincide con la “messa in movimento” del concetto di identità.

 

Non uno stato, ma una dinamica, non un confine ma un abbraccio, non una indifferenza ma una consapevolezza. Indipendentemente dalle culture e dalle tradizioni, tutti gli uomini sono uguali: lo sappiamo, ce lo spiegano fin da bambini. Ma con gli anni è facile dimenticare in cosa sono uguali: nel bisogno di una risposta alla loro attesa di senso. È questo il dato presente in ogni uomo, dovunque venga al mondo.

 

La riflessione nuova sull’identità non può che partire da qui, dal recupero, o dalla scoperta, della comune umanità, di ciò che davvero ci rende uguali e fratelli di destino (ne avremo un esempio clamoroso a fine ottobre al Cairo, con un evento promosso da un centro culturale egiziano e dal Meeting di Rimini – avremo modo di parlarne).