Il colonnello Gheddafi è certamente uomo capace di conquistarsi la scena mediatica. Sia al livello leggermente pruriginoso dei rotocalchi leggeri: le belle ragazze stipendiate per fargli da contorno, comprese le convertite (a pagamento?) all’Islam; sia nel campo della sofisticata tattica diplomatica: la minaccia di non arrestare più, se non lautamente finanziato, il flusso di immigrazione nera che dall’Africa, attraverso la sua Libia, potrebbe invadere il vecchio continente. Fragoroso poi l’invito rivolto all’Europa perché si converta alla religione musulmana.
A questo riguardo il disagio di moti credenti è stato particolarmente acuto. Giustamente qualcuno ha sottolineato che non si può rubricare l’invito del Colonnello nella categoria delle irresponsabili boutades. L’aggressività di un certo Islam non si può trattare con ottusa noncuranza. Tanto più quando si considera che là dove quel certo Islam è al potere a nessun cristiano sarebbe concesso di andare a fare «proselitismo», e quando si constata che le malridotte comunità di credenti in Cristo che sopravvivono in terre un tempo di florido cristianesimo, sono costrette ad una vita grama e rigorosamente impedite di suggerire la conversione dalla religione di Maometto.
Alcuni commentatori hanno invitato i cristiani a non stracciarsi le vesti di fronte allo smaccato e un po’ smargiasso invito gheddafiano alla conversione. La Chiesa – dicono – non ha forse la vocazione del piccolo gregge, della minoranza umile, del sale che si scioglie nell’acqua e del lievito che si annulla nella pasta? Sono i ragionamenti un po’ fastidiosi di chi non ha nessuna esperienza umana reale da difendere.
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Se una maestra invitasse mio figlio a credere a tutto il contrario di quello che gli ho insegnato io, mi preoccuperei eccome. Del resto, nei secoli la Chiesa si è sempre mobilitata per difendere il suo popolo minacciato. Che si trattasse delle orde di Attila o degli invadenti normanni, dei saraceni o dei turchi. Si è mobilitata perché aveva a cuore che nella storia non venisse travolto quel popolo che della storia porta il significato.
Ed è proprio qui il punto di debolezza in cui una spacconata come quella del Colonnello libico può insinuare lo sconcerto. Sembra che a noi cristiani manchi la tranquilla sicurezza che l’uomo di Nazareth crocifisso e risorto è il Signore della storia e che la Chiesa la percorre proprio per testimoniarlo. La sicurezza con cui un illetterato pescatore di Galilea, Pietro, varcava le porte di Roma, la città imperiale, la capitale di una superpotenza mai vista. Non sapeva come, ma era sicuro che tutto quel potere, quei marmi, quelle statue di decine di divinità erano nulla a confronto con quello che lui portava.
La sicurezza del trascinatore di giovani assisati, Francesco, che senza timore «ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo e gli altri che ‘l seguiro». Una ragione di tanto coraggio c’è; la spiega ancora Dante. Francesco possedeva quella baldanza perché aveva trovato una «ignota ricchezza» a cui tutto era sacrificabile. Non ci stracciamo le vesti per le sparate di un rais nordafricano. Ma a quella ricchezza ci teniamo.