Il tema lavoro ha mille sfaccettature. Tornato alla ribalta l’aspetto giuridico-contrattuale con la “vertenza” Fiat e il referendum di qualche giorno fa, ci siamo tutti ritrovati a parlare di regole, di confronto e politica sindacale, di produttività e mobilità, di investimenti in cambio di maggior impegno e più rigidi vincoli organizzativi.

Questi sono aspetti dalla grandissima valenza simbolica, in grado di imprimere una svolta al consolidato e conservatore mondo del lavoro sindacalizzato, ma che interessano solo la grande impresa manifatturiera e i suoi collaboratori, di fatto in Italia una minoranza, per quanto qualificata. Occorre prestare molta attenzione a quanto avverrà in fase attuativa dell’accordo ormai approvato a Mirafiori, perché sicuramente ciò produrrà importanti conseguenze in altre grandi imprese confindustriali, ma senza dimenticare che la realtà del lavoro nel nostro paese scorre in mille rivoli assai diversi dal grande fiume.

Ciò riguarda soprattutto il tema del conflitto capitale-lavoro. In prossimità del referendum si è assistito a scene a cui non eravamo più abituati: contrapposizioni sindacali e politiche, anche abbastanza violente, con il riemergere di simboli ormai praticamente dimenticati perché definitivamente sconfitti. Per la stragrande maggioranza dei piccoli e medi imprenditori il proprio destino e quello dei collaboratori è, al contrario, strettamente intrecciato. Stringere i denti, anche ricapitalizzando l’azienda, è opzione naturale per queste persone anche per salvaguardare occupazione e capitale umano.

Conoscendoli e ascoltandoli, a chiunque sia dotato di onestà intellettuale, non può non risultare vecchia la distinzione tra padroni e operai: in queste imprese, soprattutto nel momento del bisogno, si è insieme, nella distinzione di responsabilità e carismi, per il bene comune. E l’etica o le regole non c’entrano nulla, o molto poco. La fiducia è merce sufficientemente diffusa, che mantiene un suo mercato e il cui valore tende a salire proprio in periodi di crisi.

Per queste imprese perdere un collaboratore significa in tantissimi casi privarsi delle competenze maturate in anni di relazione: ciò che è a rischio non è solo il saper fare, pur importantissimo, ma anche il vissuto di battaglie affrontate e vinte, di problemi risolti e, inoltre, di sconfitte aziendali elaborate insieme. Questa esperienza comune è un cemento armato il cui potere antisismico è ben più forte di un rapporto mercantile o di regole burocratiche.

Dietro l’impegno di molti imprenditori, costruito ovviamente sulla speranza in un maltempo passeggero, a non ricorrere alla cassa integrazione, a mantenere lo stesso stipendio invariato a fronte di minori ore lavorate oggi per recuperarle domani, a ricapitalizzare le imprese con risorse fresche e provenienti dalle proprie tasche non c’è etica, c’è interesse.

 

Essi riconoscono, e come non potrebbe essere così, che dietro i cospicui successi del passato ci sono le loro buone intuizioni strategiche, la loro elevata voglia di rischiare, ma anche il notevole contributo in energia, dedizione e impegno di tanti fra i loro collaboratori che oggi, in un momento di generale fatica, vanno tutelati anche a costo di salvaguardare, nel mucchio, lavativi e furbetti. È questa, infatti, la principale materia prima di cui dispongono, il solo capitale che non si deprezzi e da cui poter ripartire non appena possibile.

 

Hirschman individuava nell’uscita, nella voce e nella lealtà i modi con cui governare una relazione, anche d’affari: l’abbandono verso migliori lidi di mercato, la rivendicazione, spesso conflittuale, interna alle organizzazioni e la permanenza in un legame di fiducia reciproca. Le piccole e medie imprese nostrane da tanti anni, anche se spesso inconsciamente, hanno intrapreso con successo quest’ultima strada.