Passata sotto lo forche caudine di un sistema politico in profonda crisi, di proteste minoritarie ma enfatizzate dai media, di assemblee parlamentari cassa di risonanza di interessi di parte, la riforma dell’Università inizia ora il suo non facile cammino di attuazione che coinvolge le Università stesse, i sistemi territoriali e, soprattutto, le burocrazie ministeriali, oggi come non mai protagoniste di quello che sarà nel prossimo futuro l’Università italiana.

Come spesso accade per le grandi riforme del nostro Paese, il testo di legge ha nel suo dna una molteplicità di modelli di riferimento: aperta al territorio sul piano della governance ma dipendente dal centro per i finanziamenti, assai poco liberalizzata (il reclutamento è uniforme e governato da Roma, il titolo di studio si tiene stretto il suo valore legale, i contenuti didattici sono fortemente predeterminati, ecc.) e poco capace di competizione virtuosa tra le diverse componenti, senza differenziazione se non grazie a una sperimentazione concordata, dai connotati ancora oscuri, essa lascia all’attuazione molto spazio di manovra. È da qui in poi che si capirà quale sia il vero modello culturale di riferimento, quello che guiderà i prossimi passi.

Sullo sfondo e, apparentemente, poco interessanti le questioni di sostanza che invece devono fare da guida a una attuazione corretta e tempestiva, quelle che nel testo costituzionale sono adombrate e che il legislatore ha, in passato, per gran parte disattese. Se si rilegge, oggi, alla luce della riforma in atto e del dibattito che ne ha accompagnato i passi, l’art. 33 della Costituzione, che sancisce con molta chiarezza l’autonomia dell’Università, pur nei “limiti” stabiliti dalla legge statale, torna infatti prepotentemente alla ribalta il tema stesso dell’autonomia, del suo senso e dei “limiti” che ne caratterizzano l’espressione.

Autonoma in quanto arbitrariamente autoreferenziale, autonoma dal potere centrale per essere asservita a interessi locali, economici o politici, autonoma per concorrere nell’attrazione delle risorse pubbliche o private negando la sua vocazione primigenia, quella di esser luogo libero di ricerca della verità e di trasmissione alta e gratuita della conoscenza?

Nel dibattito che l’art. 33 ha innescato, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, molte voci si erano levate a difesa dell’autonomia costituzionale dell’Università, rivendicandone rispetto al modello precedente la caratteristica di ente della società civile, di formazione sociale sui generis, comunità libera di studenti e di docenti, legata sì all’istituzione statale, ma solo per la determinazione dei suoi limiti esterni, essendo l’autonomia non ottriata, non conferita dalla legge ma originaria e intimamente funzionale alla ricerca e alla formazione.

 

Un ente d’élite? Forse anche, in verità, ma la cui natura elitaria risulta nel disegno costituzionale profondamente temperata dall’intervento pubblico in grado di consentire ai “capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi di raggiungere i più alti gradi dell’istruzione”.

 

Ora, se di formazione sociale si tratta – ed è ragionevole ritenere che essa ancora lo sia -è bene che l’attuazione della riforma Gelmini la rispetti e la favorisca, riconoscendo e valorizzando le eccellenze che in essa albergano, sostenendo il merito, consentendo ogni espressione di identità culturale nel libero confronto tra diversi. Se di formazione sociale si tratta, è utile che in essa le altre formazioni sociali e le autonomie territoriali possano esprimersi, che in essa possano trovare un interlocutore autorevole, in grado di sostenerne l’innovazione e di essere a sua volta sostenuta.

 

Niente di più lontano da un potere centralista e burocratico che asserva a sé l’autonomia o la tarpi in nome di vere o presunte ristrettezze finanziarie, cieche alla differenza tra il buono e il marcio. Strumenti come la valutazione, il finanziamento commisurato al merito e alla soddisfazione degli studenti e del mercato, una governance illuminata, un reclutamento corretto sulla base della produttività scientifica, l’apertura internazionale e altro ancora potranno dar fiato a questa concezione di autonomia facendo dell’Università un luogo di vita e di crescita non solo per studenti e docenti ma per tutta la società civile, a cui sola essa appartiene.