L’anno scorso, il sociologo Victor Pérez Diaz e il suo team hanno pubblicato un documento che può far luce su alcune questioni in gioco nelle prossime elezioni politiche spagnole del 20 novembre. Il documento si intitola “Cattolicesimo, valori sociali e sistema del welfare in Spagna” e contiene alcune perle che val la pena evidenziare oggi che si parla dello smantellamento del welfare state. “Il sistema del welfare e il welfare state – spiegano Victor Pérez Diaz e i suoi ragazzi – non sono due concetti intercambiabili. Estremizzando, lo Stato di solito ritiene che i servizi di welfare siano quelli che la Pubblica amministrazione (o i politici, i funzionari, gli esperti e le persone che li aiutano) può fornire in condizioni migliori rispetto agli altri fornitori”. Il sistema di welfare, invece, è il prodotto di una grande costellazione di enti sociali che forniscono servizi e che non sono nell’orbita dello Stato.
Doveva essere un sociologo di formazione anglosassone a stabilire chiaramente un qualcosa che per la mentalità spagnola è molto difficile da capire. Solo qualcuno che ha trascorso parte della sua carriera negli Stati Uniti può superare la dicotomia spagnola tra un statalismo che esclude il resto e un liberalismo che dice di avere fede soltanto nel mercato.
Per quanto semplice e superato appaia, lo schema sembra ripetersi nella pre-campagna elettorale: tutti quei servizi pubblici che non sono gestiti direttamente dalla Pubblica amministrazione vengono bollati come privatizzazioni, nemmeno fossimo ancora negli anni ‘80 dello scorso secolo. Senza superare questa dicotomia è impossibile che il welfare state, che è stato trasferito alle Comunità Autonome, possa essere sostenibile. Il taglio del rating sul debito spagnolo da parte di Fitch di venerdì scorso è, infatti, una conseguenza del deficit e del debito generati dalla sanità e dall’istruzione.
Diaz sostiene che uno degli soggetti chiave nella creazione del sistema di welfare spagnolo è stata la Chiesa cattolica. “La Chiesa – spiega il sociologo – è stato un produttore di welfare per tre ragioni. In primo luogo, perché ha rafforzato la famiglia, un fattore che è decisivo. È facile immaginare cosa sarebbe successo in una Spagna con cinque milioni di disoccupati se non ci fosse stata la rete di solidarietà di base che porta con sé la famiglia. Il secondo ambito in cui la Chiesa è ‘produttiva’ è la creazione di strutture sociali e il terzo è la sua attenzione nel contrastare la povertà e l’esclusione sociale”.
La natura “socialmente produttiva” della Chiesa è decisiva di fronte alle elezioni politiche del prossimo 20 novembre. In realtà, questa “produttività” si identifica con la sua missione nel mondo. Benedetto XVI lo ha spiegato quasi un anno fa nella sua omelia alla Sagrada Familia, parlando di Gaudí. Pose il grande architetto come esempio di qualcuno che ha realizzato “uno degli obiettivi oggi più importanti: superare la divisione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra il vivere in questo mondo temporale e l’apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come bellezza”. Le opere, soprattutto quelle sociali, costringono l’uomo a interrogarsi, perché sono “segno visibile del Dio invisibile”.
Con questa prospettiva si capisce che l’arrivo di Rajoy alla Moncloa non comporta né più né meno che il cambiamento più radicale di cui ha bisogno la Spagna. Il cambiamento è necessario, molto necessario. Abbiamo sofferto negli ultimi otto anni il peggior governo nella storia della democrazia. Ma non è il momento di cadere nella tentazione dello statalismo cattolico che tanti danni ci ha causato a partire dall’inizio del XIX secolo, da quando nelle Cortes di Cadice – di cui presto ricorrerà il bicentenario – si posero le basi dello Stato spagnolo come lo conosciamo ora.
Nonostante il fiorire di numerose opere sociali, quasi tutte le energie disponibili per costruire una presenza cristiana sono state utilizzate, a partire da quel momento, per far sì che la modernità non togliesse allo Stato alcune eredità confessionali. Questa è stata la conseguenza di un modo di intendere il cristianesimo in chiave compassionevole e individualista. Il vero soggetto del cambiamento non poteva essere, con questa mentalità, il soggetto sociale cristiano, ma lo Stato.
Queste due ultime legislature sono state una buona occasione di riflessione: la presenza cristiana è tale solo quando è sociale o “esteticamente” produttiva e fa domandare quale sia l’origine di tanta bellezza. Non c’è altro modo.