Nelle analisi sulla crisi c’è un aspetto che molte volte sfugge. Quello che è arrivato al capolinea è un modello economico e finanziario che per parecchi anni ha spopolato nelle migliori università. Una sorta di pensiero unico sul quale si sono formate intere schiere di manager e di tecnocrati, autoreferenziali fra di loro, che hanno poi costituito il nerbo delle principali industrie e banche, d’affari e non, e di molti governi.

Non è un caso che il presidente Obama abbia chiamato al capezzale dell’economia americana gli stessi, a cominciare dal Segretario al Tesoro, Tim Geithner, che l’hanno portata allo stato di crisi attuale e dal quale adesso non sembrano riuscire a trovare una via d’uscita. L’errore per noi è stato quello di assumere in modo acritico un modello per molti versi estraneo alla nostra cultura, tutto impostato sul presente, sul breve termine, senza apertura al futuro e in totale spregio verso il passato.

In quanti master, per esempio, si è insegnato che le banche di territorio dovevano essere sostituite con realtà dove il dato dimensionale diventava il fattore portante o che la banca universale era il riferimento a cui guardare cancellando l’esperienza dei mediocrediti. Oppure quante volte abbiamo sentito dire che l’industria doveva delocalizzare le attività manifatturiere, mantenendo in Italia solo il marketing e la finanza.

Si è così buttata a mare una tradizione, che come tale ha sempre un contenuto di verità sedimentato nel tempo attraverso verifiche reali, per abbracciare una presunta novità a tutti i costi. In realtà non c’è peggior abbaglio: il nuovo non è mai l’inedito, ma è la capacità di affrontare il presente portando in esso il meglio dell’esperienza maturata attraverso tentativi, progetti, approssimazioni successive. In tal senso credo, per esempio, che un’istituzione come l’Università Cattolica dovrebbe contribuire a far emergere quel criterio diverso, quel fattore distintivo, che è nel suo dna, non appiattendosi sul pensiero dominante che ha ridotto l’economia a puro tecnicismo.

Senza nulla togliere all’importanza di avere competenze tecniche adeguate, in un mondo sempre più complesso e competitivo ciò che fa la differenza sono professionalità in grado di muoversi dentro un orizzonte più ampio di conoscenze e sensibilità capaci di esaltare il desiderio e il gusto del rischio.

Pochi giorni fa nel suo primo incontro col mondo economico e finanziario, il neo arcivescovo di Milano, Angelo Scola, ha sottolineato come il mercato non sia un dato di natura, ma un fatto di cultura. Non è quindi un moloch immodificabile che viva di vita propria e che si autoriproduca secondo meccanismi automatici. È espressione dell’uomo che cerca risposte ai propri bisogni e che può anche sbagliare. Perciò quando servono vanno introdotti correttivi, ma questi devono partire da una visione positiva verso chi si mette in gioco. Consapevoli che la fiducia, che è l’anima dei commerci, non può essere costruita e garantita solo dalle regole.

Purtroppo per molti anni siamo stati vittime di un grande equivoco. Si è usato e abusato anche del concetto di etica in modo strumentale per un’operazione di pura cosmesi. Può sembrare paradossale, ma mai come in questo tempo, in cui tanto si è parlato di attività e comportamenti eticamente compatibili, si sono registrati i peggiori abusi in campo finanziario ed economico. Abbiamo avuto addirittura agenzie che rilasciavano patenti di eticità poi clamorosamente smentite dalla realtà.

Tra i banditori dell’etica e Wall Street credo che come sempre la verità stia nel mezzo, là dove c’è l’uomo reale.