Nel suo viaggio d’inizio mese in Calabria, Benedetto XVI ha fatto tappa presso la Certosa di Serra San Bruno. Com’è noto, l’ordine dei Certosini è quello che più di altri privilegia il silenzio. I suoi monaci non parlano quasi mai. Chi ha visto il film Il grande silenzio ha potuto, anche se solo per tre ore, immedesimarsi con la vita di uomini che fanno del silenzio – mentre mangiano, mentre lavorano, mentre cucinano, coltivano l’orto e si tagliano i capelli – il clima permanente della loro esistenza. Ai certosini di Serra San Bruno il Papa ha detto: «Ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si espone al reale nella sua “nudità”».
La vita dell’uomo è sempre un «esporsi al reale», è inevitabilmente nesso con qualcosa al di fuori di sé. Nella stragrande maggioranza dei casi noi viviamo questo rapporto proiettando su cose e persone i nostri pensieri o sentimenti; al massimo ributtiamo loro addosso le reazioni che ci suscitano. Il risultato è che non c’è mai un istante in cui il reale ci parla «nella sua nudità», un momento in cui gli permettiamo di mostrarsi per quello che è: qualcosa che esiste indipendentemente da me, che impone la sua non dovuta, non ovvia presenza e che, proprio per questa sua gratuità, pone la radicale domanda: «Da dove viene?».
Benedetto XVI continua affermando che il silenzio del certosino lo espone anche a un «apparente vuoto». Ecco il motivo per cui facciamo così fatica a stare in silenzio, per cui dobbiamo riempire ogni interstizio del tempo con parole, immagini, suoni o almeno rumori. La paura del vuoto, il montaliano «terrore di ubriaco», nasce perché tutte le cose ci sono, eppure ci verrebbe da pensare che siano sospese sul nulla e a esso destinate. È questo terrore che ci fa stare in silenzio solo nell’incoscienza del sonno, che ci fa andare in giro con gli auricolari perennemente accesi nelle orecchie, col telefonino continuamente attivo per scambiarci futilità, con internet sempre a portata di click, con l’autoradio a paletta, con il ronzio della tv come sottofondo anche delle più amichevoli conversazioni o mentre beviamo un aperitivo al bar. Rispetto al passato, abbiamo solo una maggiore disponibilità tecnologica, ma la questione di fondo è che ci imbarazza il silenzio, perché noi stessi ci scopriamo nella nostra nativa nudità ed esposti al vuoto.
Ma, conclude il Papa, i monaci affrontano virilmente «il reale nella sua nudità» e si espongono a un «apparente vuoto» per una motivazione perfettamente ragionevole: per «sperimentare la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile». Il silenzio, dunque, è un dialogo ineffabile – cioè che non si dice con le parole – con la realtà nella sua profondità. Che non è il niente, il vuoto, ma la Presenza che di ogni cosa e persona è sorgente, consistenza e meta.
Allora cose e persone acquistano una potenza espressiva inimmaginabile. E chi le contempla nel silenzio sa acutamente gustarne il valore. Come dimostrano i calmi e penetranti sguardi de i certosini protagonisti de Il grande silenzio.