La lezione di Steve Jobs

Nel suo celebre discorso a Stanford del 2005, Steve Jobs ha descritto tre episodi importanti della sua vita, apparentemente negativi. Ce ne parla ROBERTO FONTOLAN

Quando Steve Jobs pronunciò il suo più celebre discorso, che è anche uno dei più riusciti discorsi pubblici mai pronunciati da chicchessia, era il 2005. Parlava alla cerimonia di laurea a Stanford, in California, davanti a giovani adoranti e raccontava di tre storie, che a leggerle bene sono in realtà tre fallimenti. Il primo era il fallimento della sua mamma biologica, la quale non voleva o credeva di non poter essere anche madre affettiva e dunque decise di lasciare il piccolo in adozione. In più non era laureata e aveva vincolato l’adozione al fatto che i candidati genitori adottivi invece lo fossero. Ma per vicende tortuose l’operazione non riuscì, Steve finì in casa di un padre e una madre non laureati, che però promisero solennemente che lo avrebbero spedito al college. Dunque un fallimento di identità e di progetto materno.

Il secondo fallimento fu proprio suo, quando a 30 anni venne licenziato dall’azienda che lui aveva creato, proprio quella, la Apple. Steve aveva inventato il Mac nel mitico garage insieme al suo omonimo di origine polacca, “Woz”, d’accordo; aveva creato un oggetto meraviglioso e talmente utile da risultare indispensabile, d’accordo; aveva fatto e fatto fare un sacco di soldi, d’accordo. Ma il board dei direttori si schierò con l’uomo che lui stesso aveva portato alla Apple per farla ancora più grande ed efficiente, un manager della Pepsi che aveva avuto il coraggio di sfidare frontalmente la Coca Cola e vincendo parecchie battaglie: il manager riteneva che Steve fosse ormai superato e per di più c’era in corso una guerra senza respiro con la Ibm. Dunque un fallimento professionale e politico, di gestione del potere.

Per quanto riguarda il terzo fallimento, Steve all’epoca del discorso non poteva saperne nulla, anzi. Era stato operato per un tumore al pancreas che i medici giudicavano curabile e lui disse: “Ora sto bene”. Ma in questi anni la salute di Steve Jobs non è affatto migliorata e di quella malattia è morto. Dunque un fallimento della medicina o almeno la dimostrazione della sua debolezza, in ogni caso un fallimento senza colpevoli.

Al primo scacco della vita reagì andando al college (ciò per quanto riguarda la parte in superficie, dell’aspetto profondo del suo legame con la madre biologica non sappiamo). Entrò animato dalle migliori intenzioni, ma dopo sei mesi lasciò perdere, non faceva per lui. Poteva essere un fallimento nel fallimento, ma con uno scatto vitale “all’americana” si mise a frequentare da non iscritto solo i corsi che gli interessavano: un semiclandestino che dormiva per terra nelle stanze dei suoi amici studenti e guadagnava qualcosa riportando al distributore di Coca Cola le bottigliette vuote. Si innamorò della calligrafia e dell’arte tipografica, imparò tutto dei caratteri, delle grandezze e delle proporzioni. Poi venne il Mac.

La seconda sconfitta la prese proprio male, si sentiva fuorigioco e persino si vergognava, lui alfiere di una nuova generazione di imprenditori, per aver perso così platealmente. La sua creatura, i suoi stessi amici l’avevano fregato – cose che in verità capitano anche in consessi umani più buoni e aggraziati. E come reagì questa volta? “Ero innamorato e per questo decisi di ricominciare da capo”. Cioè si lasciò spingere e trascinare da ciò che amava. Così lo spiegò a quei giovani: “Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non perdete la fede, però. Dovete trovare quel che amate. Il lavoro riempirà una buona parte della vita e l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quel che fate. Non accontentatevi”.

E così vennero la Next e la Pixar (Toy Story, avete presente?). E poi la Next venne comprata da Apple e Steve cacciato dalla finestra poté rientrare trionfalmente dalla porta. Il resto della storia di Steve Jobs lo abbiamo davanti e in tasca: la stupefacente serie di Mac, l’i-phone, l’i-pad.

Circa la terza storia raccontata quel giorno, quella della malattia, si abbandonò a dei pensieri sulla morte: “Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore […]. Il vostro tempo è limitato per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro […]. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare”.

Ed è così che il bambino adottato, il giovane non laureato, l’imprenditore dato per finito, diventò quel che “doveva” diventare: non solo il genio tecnologico della nostra epoca, non solo l’ineguagliato creatore di forme del nuovo; ma soprattutto il leader, forse involontario, di un umanesimo certamente non cristiano, ma così amichevole che ci mancherà.

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