Cannes è probabilmente una delle località francesi più affascinanti della Costa Azzurra. C’è una certa eleganza nell’ambiente, dovuta forse alle tracce lasciate da illustri villeggianti nel corso degli anni. Ma un contesto così accogliente è servito poco ai leader del G-20 la scorsa settimana per trovare soluzioni alla crisi. L’importanza che un tempo aveva il G-8 è stata rimpiazzata da questo gruppo più aperto, in cui i paesi emergenti hanno acquisito protagonismo, con i Bric in testa. Il Fondo monetario internazionale prevede che i quattro paesi che sono dietro a questo acronimo saranno i “padroni del mondo” in poco tempo. Nel 2025 la Cina sarà la prima economia del pianeta, la Russia la terza, l’India la quinta e il Brasile la sesta.
Consapevoli del loro potere non hanno voluto realizzare un aumento delle risorse per far sì che il Fmi possa correre in aiuto di chi si trova in difficoltà, come ha chiesto la Germania. Il vertice è stato dominato dalla crisi greca e di questo tema America Latina e Asia, che sono sempre più influenti, non ne vogliono sapere niente. Il G-20 ci ha lasciato due prove. La prima: il governo mondiale di cui parla Benedetto XVI nella Caritas in veritate non esiste. E sarebbe più che mai necessario affinché l’economia finanziaria non continui ad allontanarsi da quella reale, per ottenere una liberalizzazione del commercio che contribuisca a uno sviluppo efficace, per scommettere su un’uscita dalla crisi che non scateni una competizione distruttiva. Seconda prova: l’Europa conta sempre meno.
Qual è il segreto dei Bric? Uno è lo sforzo che dedicano all’innovazione. Secondo i dati dell’Ocse, la Cina ha aumentato la sua spesa in Ricerca e sviluppo del 23% tra il 1995 e il 2005, mentre i suoi brevetti sono aumentati del 70%. Il futuro è senza dubbio nell’innovazione, intesa non solo in senso tecnico. Si parla molto delle ragioni strutturali della crisi politica, della politica monetaria necessaria, del salvataggio del settore bancario o del problema del debito sovrano che, secondo la Merkel, durerà dieci anni. Si parla addirittura di crisi morale. Di valori perduti. Ma quasi nessuno parla della “questione antropologica”. Un tipo di scintilla e di energia che suscita una capacità di costruire come quella che ha permesso a Steve Jobs di rivoluzionare il mondo dei computer e cambiare la vita di molti. Un gusto per il nuovo che ci permette di fare impresa, di cercare lavoro quando non lo si ha, di rendere diverso ciò che è quotidiano.
Questo tipo di impulso è quello di cui ha bisogno l’Europa. Perché nel Vecchio Continente a furia di cercare la sicurezza prima di ogni cosa, a furia di fare ogni sforzo per non cambiare, la realtà ha smesso di apparire positiva e provocatoria. Tutto questo ha molto a che fare con il modo di usare la ragione. Lo ha detto usando parole poetiche Octavio Paz nel ricevere il Nobel nel ‘90. Era un anno decisivo, era appena caduta l’utopia comunista e tutto il mondo si arrese al sogno liberale. Lo scrittore messicano, con parole liriche, criticava la ragione che era stata divinizzata, che aveva smesso di essere “fresca”. E spiegava come si ottiene il vero progresso, la modernità. “Inseguiamo la modernità – disse Paz – e non riusciamo mai ad afferrarla. Ci sfugge sempre: ogni incontro è una fuga […]. L’abbracciamo e subito svanisce: era solo un po’ d’aria. Rimaniamo con le mani vuote Quindi le porte della percezione si aprono e troviamo l’altro tempo, quello vero, quello che cerchiamo senza saperlo: il presente, la presenza”.
Un poeta può insegnarci qualcosa su come uscire dalla crisi? Quando si aprono le “porte della percezione”, quando vediamo noi stessi in un altro modo e siamo capaci di vedere “ciò che è presente” è il momento in cui nasce l’innovazione. L’innovazione più decisiva, quella che si riferisce a noi stessi.