Le dimissioni di Berlusconi e il cambio di governo sono solo l’ultimo atto della situazione di emergenza in cui si trova l’Italia. Il rischio di arrivare a un punto di non ritorno è reale. Tra i principali imputati della crisi che stiamo attraversando viene additato il mondo finanziario che ha senz’altro gravi responsabilità, anche se le generalizzazioni e gli slogan semplificatori che oggi vanno per la maggiore non aiutano certo a comprendere una realtà per sua natura complessa. La tentazione di fare d’ogni erba un fascio è sempre una scorciatoia pericolosa. Chiediamoci infatti qual è l’alternativa alla finanza, se per essa intendiamo non i mutui subprime, ma la capacità di veicolare il risparmio verso le imprese in grado di valorizzarlo.



L’esperienza ci dimostra che è il ritorno al debito pubblico. Demonizzare la finanza in generale, indicandola come causa di tutti i mali, significa limitare la possibilità dello sviluppo e penalizzare la cultura del rischio spostando risorse verso i presunti investimenti sicuri e garantiti. Ne è una prova la risposta al fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che è consistita in massicci piani di acquisto di titoli di Stato. Adesso però stiamo scoprendo che neppure gli Stati sono in grado di dare garanzie sulla sicurezza dei loro prodotti finanziari. Sono rimasti solo gli Usa e la Germania con rendimenti sotto il 2%.



In tempi non sospetti ho sempre rimarcato come il pericolo più grande per la nostra economia fosse l’accumulazione di debito pubblico, che non è mai stato avvertito tale per il solo fatto che si comporta come un fiume carsico. Se un investimento azionario va male la percezione è immediata, mentre col debito pubblico non è così. Infatti in passato tutti ne hanno tratto beneficio mentre erodeva nel profondo, drogato dalla spesa pubblica, le fondamenta di un rapporto di scambio equilibrato fra Stato e cittadino. E solo ora si comincia ad avere consapevolezza della zavorra che grava sulla nostra comunità. Quindi se la finanza ha le sue colpe, ben più grave è aver lasciato che si arrivasse alla situazione in cui ci troviamo oggi. Insieme al crollo della natalità la voragine del debito pubblico è il sintomo di un paese che si è ripiegato egoisticamente su se stesso non pensando al futuro.



Un altro fronte al quale bisogna rimettere mano in fretta è la riforma del credito, un settore che necessita, a mio parere, di un profondo ripensamento. Mentre si vuole scongiurare una seconda recessione nel giro di soli tre anni, le imprese faticano a finanziarsi anche in conseguenza dell’imposizione, derivante dagli accordi internazionali, di criteri sempre più stringenti sul capitale delle banche. L’unica strada che vedo percorribile è superare l’attuale modello di banca universale e tornare a quello per specializzazione. Distinguendo tra istituti commerciali che servono famiglie e piccole imprese, di credito a medio termine e d’investimento. Sono tre tipologie che per le diverse caratteristiche della loro clientela di riferimento richiedono indici patrimoniali differenziati, più consistenti per le banche d’investimento e meno per quelle commerciali.

Un’ultima considerazione riguarda la politica. In un mondo che è profondamente cambiato servono competenze adeguate, perché sempre più la definizione delle regole dipende da sedi esterne al nostro paese. In questo periodo stiamo sperimentando quanto oggi l’Italia sia condizionata dalle decisioni di organismi dell’Unione Europea. Auspico perciò che i partiti alle prossime elezioni europee candidino non qualche politico a fine carriera o qualche “riserva” della propria panchina, ma giovani su cui investire.

Non è per mera questione anagrafica né per sciocco giovanilismo. Abbiamo visto infatti alcuni giovani cooptati nell’ultimo governo non propriamente all’altezza della responsabilità loro affidata, mentre l’anziano Presidente Napolitano ha dimostrato che si può non essere vecchi alla sua età. Semplicemente c’è la necessità di costruire dal basso una nuova classe politica idealmente ispirata e capace di interloquire con un mondo sempre più complesso.